Bernardo Caprotti: con la Coop ho vinto, ma in Italia non vedo futuro

Nel quartier generale dell’Esselunga a Pioltello, alle porte di Milano, tutti i dipendenti portano sulla giacca un cartellino di plastica bianca con il proprio nome e cognome. Ce l’ha anche Bernardo Caprotti, 86 anni, mitologico fondatore della esse rossa che riceve in abito occhio di pernice e Swatch nero al polso. «La ringrazio di essere venuto fin qua. Ha fatto fatica a trovarci? Ah, ma lei è di Siena? Una città meravigliosa. Se crede, sono a sua disposizione fino a mezzogiorno e mezzo».

Caprotti è il leader di un gruppo che l’anno scorso, in piena contrazione di consumi, ha fatturato 6.630 milioni e registrato un utile netto di 209,4. Quasi il 5 per cento più dell’anno precedente. Eppure, oltre a indossare uno Swatch, si alza per prendere i bicchieri e serve a tutti acqua minerale. Non solo: sebbene alle prese con una complessa vicenda ereditaria, da sempre fa la fila alla mensa aziendale con i suoi dipendenti, mangiando insieme a loro come Alessandro Magno e San Benedetto da Norcia. Strategia? Vezzi di un grande eccentrico?

Piuttosto uno stile, ormai quasi scomparso: l’understatement di una borghesia perduta fatta di solide letture (in lingua), buon uso di mondo e forte senso pratico. Un’idea d’individuo diversa da quella che si è affermata negli ultimi vent’anni, che radica la propria essenza non solo nella visione, cioè nell’anticipazione della realtà, ma soprattutto nella pratica, nella concretezza dei fatti e della necessità di farci i conti. Uno stile che oggi, di fronte alla sentenza con cui l’Antitrust ha imposto una sanzione alla sua rivale storica, gli fa mantenere un distacco singolare. Olimpico e un filo blasé…

 

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