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La “tecnologia blockchain” (o anche solo la “blockchain”) è uno di quegli argomenti che possiede tutte le caratteristiche per il successo: il fascino misterioso dell’evoluzione informatica, crescenti orizzonti di utilizzo, clamore mediatico, il sapore della libertà fuori dalle regole tradizionali, il democraticismo delle soluzioni nate “dal basso”. Certamente non è ancora un argomento da discussione sotto l’ombrellone, a causa della inevitabile complessità tecnica della materia e dallo scarso utilizzo di questa sorta di database libero e distribuito nel nostro Paese. Non è tuttavia da escludersi che possa conquistare la hit parade dei temi del confronto economico entro la prossima estate, considerata la crescente rilevanza che sta acquisendo tra gli addetti ai lavori di discipline molto diverse. Ne è una prova il recentissimo dibattito ospitato dal Sole 24 Ore a riguardo del rapporto tra blockchain e mercato del lavoro.
È motivo di numerosi approfondimenti il potenziale di un database pubblico, immodificabile, da tutti consultabile, in grado di garantire la sicurezza non soltanto delle transazioni valutarie (è quel che già accade con i bitcoin), ma anche nell’ambito dei rapporti di lavoro. La “catena di blocchi” con la quale si realizza questo processo di controllo, infatti, ha come scopo proprio quello di comprovare permanentemente il consenso che l’insieme di soggetti che hanno partecipato alla catena hanno raggiunto sullo stato di una risorsa (una transazione, un contratto etc…). Tale processo, pur essendo scevro di ogni controllo da parte di autorità terze (quelle statali in primis), non è corruttibile ed è verificabile da chiunque. È per questo che si associa costantemente la blockchain alla democrazia e alla innovazione sociale (“Internet del valore”).
L’alto grado delle aspettative di coloro che auspicano un veloce utilizzo della blockchain anche nell’ambito lavoristico è sintomatico della opacità che ancora contraddistingue il nostro mercato del lavoro. La blockchain, infatti, non è che una infrastruttura e, come tale, non è in grado di condizionare la moralità di chi se ne serve. Certamente permette una maggiore controllo sulle operazioni e sulle transazioni, ma non piò diventare una bacchetta magica contro le furbizie e le illegalità. In altre parole, rimanendo nell’ambito del mercato del lavoro: può significare una modernizzazione non solo utile, ma necessaria; ancor più necessaria resta, però, l’educazione alla correttezza di imprenditori, lavoratori e amministrazioni pubbliche. Sbaglia chi crede che i problemi del nostro mercato del lavoro siano tutti causati dallo Stato, o generati soltanto dall’avarizia della impresa o, ancora, frutto soprattutto dell’atteggiamento del sindacato. Il mercato del lavoro è certamente zavorrato da una normativa vecchia e tutt’altro che fruibile, ma anche dai continui alibi di chi tutti i giorni si lamenta di quel che non funziona senza mai fare il primo passo perché le cose cambino. Parafrasando il titolo del Meeting di Rimini appena concluso: le forze che cambiano il mercato del lavoro sono le stesse che cambiano il cuore delle persone che lo vivono. Purtroppo (o per fortuna?) non esiste rivoluzione tecnologica che possa sostituire questa responsabilità di ognuno di noi.
Presidente ADAPT
*pubblicato anche su ilsussidiario.net, 30 agosto 2018