In sette anni di crisi l’Italia ha perso il 20% della sua capacità produttiva ma le imprese nazionali davano segni di cedimento già prima. Nonostante il quadro sia certamente non roseo, una luce si intravede: nel periodo gennaio/settembre 2014, nonostante la recessione, i distretti italiani hanno aumentato l’export più del manifatturiero tedesco, mostrando un progresso prossimo all’1%, a dispetto dell’arretramento segnato dall’industria manifatturiera.
Girandosi attorno, liberi da pregiudizi e remore del passato, e guardando in faccia la situazione attuale dell’industria italiana, i due autori Dario di Vico e Gianfranco Viesti hanno buttato giù le diverse riflessioni e i percorsi mentali che animano il libro Cacciavite, robot e tablet – Come far ripartire le imprese, in cui è protagonista la politica industriale, ormai grande assente nel nostro Paese. Proprio oggi, più che mai, una politica industriale sarebbe necessaria: è la chiave dello sviluppo; impatta sull’economia generale, così come sulla vita dei singoli.
La fotografia dell’Italia che viene fuori è questa: un Paese povero di materie prime, distinguendosi, più che come produttore, come paese trasformatore di quanto importato dall’estero, spesso, a costi esosi che devono, pertanto, essere compensati con quanto ricavato dall’export di prodotti nostrani.
Questo almeno fino a qualche tempo fa. Oggi gli investitori stranieri stanno buttando lo sguardo dentro i nostri confini, a ciò che sta accadendo in alcuni distretti di “casa nostra”, le cui filiere di fornitura mostrano una qualità che ai nostri concorrenti d’oltralpe comincia a far gola. Ad attrarre sono state soprattutto le performances di tre poli tecnologici – aeronautico, farmaceutico e biomedicale – che hanno aperto i fronti dell’economia italiana a qualcosa che è non soltanto nuovo, rispetto ai soliti settori d’eccellenza – moda, manifatturiero e alimentare – ma anche migliore di tanti equivalenti produzioni straniere.
Un caso su tutti: il settore farmaceutico sta realizzando in Italia un hub mondiale, fatta sia di aziende multinazionali che di piccole-medio imprese, scegliendo il nostro territorio per produrre farmaci da distribuire su scala mondiale, riscontrando nella nostra Terra l’humus ideale per gli investire. Queste best practices non sono, forse, spunti per la ripresa? Certamente per trarne i frutti migliori bisogna saper interpretare correttamente quanto sta accadendo.
Tra le diverse strade prospettate dai due autori, Di Vico mette in risalto alcuni elementi che vengono fuori proprio da esperienze concrete e positive – come quella presa in esame – e che forniscono, sul tema, insegnamenti importanti.
Il primo: è il mercato a dettare le linee di tendenza; lo Stato, viste le esperienze passate, deve limitarsi a creare le condizioni migliori affinché tali tendenze prendano piede con vigore. Il ruolo pubblico, in sintesi, dovrebbe essere rilegato, sostanzialmente, a ridurre la tassazione sulle imprese. Se questo può esser vero in linea generale, circa i settori strategici, come sostiene, invece, Viesti, lo Stato non può mancare di essere attore principale. In questo caso, per essere competitivi sul piano internazionale, occorrono risorse massicce e politiche a tutto campo che solo a livello nazionale è possibile predisporre e gestire.
Bisogna favorire gli investimenti privati – fondi di investimento, banche, grandi multinazionali –, passando da una cultura “montista” ad una “vallista”, ossia che consideri, fin dall’inizio, gli effetti a valle degli investimenti: i fatti dimostrano che le esperienze di maggior successo, in questo dato momento storico, sono quelle che puntano sulla distribuzione, sulla logistica, piuttosto che alla produzione.
Più spazio alle politiche della distribuzione su cui bisogna investire in prima persona assicurandosi, per avere un degno riscontro, che vi sia la giusta combinazione di due fattori: territorio e risorse.
Il modello di business della specializzazione industriale italiana ha retto alla recessione e va rinforzato, arricchito tramite un processo di ri-specializzazione basato sul raccordo tra innovazione e capitale umano. È debole la cultura nostrana del retail: si invoca l’arrivo di grandi multinazionali sul territorio ma, poi, quando mettono radici sono abbandonate alle loro sorti. Si pensi alla Benetton, che anni addietro ebbe l’intuizione di lanciarsi nel campo dell’abbigliamento just in time, diffondendosi capillarmente sul territorio in tempi rapidi; preferendo, poi, le Autostrade, ha dovuto gettare la spugna dinnanzi al colosso spagnolo Zara…. intuizione sprecata!
Vedi poi il caso della Nestlé che ha assorbito l’italiana San Pellegrino e ne ha fatto un marchio globale; ora vorrebbe replicare il successo con la Pizza Buitoni, ma stenta a trovare un interlocutore istituzionale con cui dialogare. Esprime pienamente questa realtà il drammatico passaggio in cui Di Vico sostiene di aver visto «country manager di importantissime multinazionali costretti a fare la fila ai convegni per poter incontrare qualche esponente del Governo» per “rubare” l’attenzione che, invece, meriterebbero a pieno titolo: da loro, infatti, dipende l’allocazione degli investimenti, la destinazione delle risorse. Servono i manager, quelli degni di questo titolo, supportati da una formazione professionale in grado di carpire e sfruttare al meglio le risorse del territorio e dialogare con l’imprenditore per massimizzarne il profitto.
Altro tassello importante è quello del ricambio generazionale: le risorse umane di ultima generazione, più avvezze alle nuove tecnologie, sono essenziali per dare quella spinta, quella ventata di innovazione che serve alla nostra impresa. Questo delicato passaggio, da elemento strategico, se non gestito correttamente, può tramutarsi in un problema.
Il turnover tra i dirigenti privati è da sempre attorno al 20% l’anno, ora è raddoppiato, un po’ per la chiusura massiccia di aziende, un po’ per l’effetto spiazzante del digitale: si immagini quale impatto possa avere una struttura di vendite online sulle tradizionali competenze commerciali. Il turnover, dunque, è essenziale ma non come effetto automatico, negativo, di un’economia morente, quanto come frutto della sete di nuove competenze ed energie. Solo percorrendo questa strada l’innovazione tecnologica può diventare una leva efficace per superare la crisi e far ripartire le imprese, cosicché robot e tablet non siano più costretti a convivere col cacciavite, come, contraddittoriamente, si è verificato negli ultimi anni, portando ad un poco o nulla di fatto.
Valentina Picarelli
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@valepic86