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Bollettino ADAPT 13 febbraio 2023, n. 6
Negli ultimi 5 anni la popolazione in età da lavoro (15-64 anni) è diminuita di 756 mila persone. Nel solo 2022 di 133 mila. Basterebbero questi dati per capire quanto il peso dell’andamento demografico possa avere enormi implicazioni sulla composizione del mercato del lavoro e quindi sulla disponibilità di persone e, più in generale, sul funzionamento dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Ma questo dato è solo la punto dell’iceberg di una trasformazione più ampia che tocca tanti aspetti del rapporto tra demografia e lavoro.
Negli ultimi venticinque anni la popolazione italiana è invecchiata tanto da portare la media d’età da 38 a 44 anni. Nello stesso arco temporale gli occupati con meno di 35 anni sono diminuiti di 3,6 milioni mentre quelli con più di 45 anni sono cresciuti di 4,2 milioni. Nel Rapporto 2019 “Il mercato del lavoro. Una lettura integrata” si riportano a riguardo dati Istat particolarmente interessanti. Le previsioni dell’Istituto di statistica infatti ritengono infatti che entro il 2036 l’Italia perderà 3,5 milioni di individui in età lavorativa con un -24,7% nella fascia 35-54 anni, un -7,4% in quella 15-34, e un +17,6% dei lavoratori nella classe 55-69. Non è difficile immaginare l’impatto di questo cambiamento sulla popolazione lavorativa che si troverà invecchiata e quindi più soggetta a malattie croniche, difficoltà di eseguire alcuni lavori e con un deficit di competenze rispetto a quanto richiesto dai sistemi produttivi. Ma anche una popolazione lavorativa la cui speranza di vita è molto più elevata rispetto al passato con un conseguente aumento dell’età pensionabile reso necessario da un sistema di welfare che non potrà certo reggere un 50% di popolazione in pensione. La sfida, che è di lungo periodo ma il cui terreno va preparato subito, è quella di immaginare un lavoro sostenibile per tutti, giovani e anziani a seconda delle possibilità di ciascuno.
Se si osservano i dati demografici è possibile leggere in modo diverso l’annoso dibattito sulla mancanza di forza lavoro, soprattutto giovanile in Italia. Nel 2002 in Italia vivevano 7,844 milioni di giovani tra gli 0 e i 14 con cittadinanza italiana, nel 2019 il numero è sceso fino ad arrivare a 6,988 milioni, un calo di 856mila unità, pari al 10,9%.
Fonte: rielaborazione dati Istat.
Invece, il numero di under 15 con cittadinanza straniera è cresciuto dai 252mila del 2002 agli 883mila del 2019, una crescita del 250%. La differenza quindi tra il 2002 e il 2019 è di 226 mila persone under 15 in meno complessivamente.
Fonte: rielaborazione dati Istat.
Fonte: rielaborazione dati Istat.
Come detto, il grande calo della popolazione italiana è stato in parte supplito dalla forte crescita di quella straniera. In termini di impatto sul mercato del lavoro è utile guardare ai livelli di istruzione per cercare di comprendere quale possa essere, e in parte già sia, la principale conseguenze di queste trasformazioni demografiche. Il livello di istruzione di stranieri e italiani è caratterizzato da un forte dualismo, che non sembra migliorare marcatamente negli ultimi anni. Se si considera la popolazione italiana tra i 15 e i 34 anni per i tre macro-livelli di istruzione abbiamo un 18% che possiede la licenza media, un 50,7% che possiede un diploma di scuola secondaria superiore e un 30,5% che possiede una laurea o un titolo post-lauream. Tra gli stranieri, al contrario, troviamo un 47% con la licenza media, un 35% con il diploma e solo il 12,7% con laurea o oltre. Sono dati che possono aiutare a leggere il fenomeno di crescente mismatch tra domanda e offerta di lavoro descritto sia a livello internazionale ma che pare avere particolare peso nel contesto italiano. La difficoltà di incontro tra domanda e offerta da un lato ha evidenti origini, che stiamo ad approfondire, legate all’accelerazione tecnologica che genera cambiamenti nell’offerta di lavoro. Ma non si può ignorare come il contesto demografico finisca per aggravare la situazione. Infatti a causa di numero assoluto inferiore di persone che andranno a far parte (e già fanno parte, essendo il fenomeno ormai datato) della forza-lavoro, si ridurrà inevitabilmente la domanda di lavoro rendendo più complesso trovare le figure necessarie a soddisfare l’offerta del tessuto produttivo. Questo anche a causa di una ricomposizione della forza lavoro più giovane che vede un effetto sostituzione, di oltre 800 mila unità, tra italiani e stranieri con un conseguente indebolimento complessivo della quota di laureati e diplomati. Il tutto a fronte di una domanda di competenze tecniche e specialistiche connesse ai cambiamenti tecnologici che richiede diplomati e laureati.
Se negli ci siamo ampiamente concentrati sul rischio di automazione del lavoro e quindi della tecnologia come driver principale di cancellazione del lavoro, gli impatti demografici appaiono invece ancor più importanti a breve termine se analizzati dal punto di vista dell’occupazione giovanile e della struttura stessa del mercato del lavoro. A questo si aggiunge che Istat ha recentemente mostrato come nel 2021 il lavoro sotto-qualificato per gli stranieri in Italia era doppio rispetto a quello degli italiani ma anche che il tasso di occupazione degli stranieri laureati era di quasi 20 punti inferiore rispetto agli italiani, segnale del fatto che non solo gli stranieri, come detto, sono spesso meno qualificati degli italiani ma che, e questo è ancora più grave, non siamo in grado di valorizzare al meglio le competenze che ospitiamo, perdendo valore aggiunto potenziale.
Se poi andiamo ad analizzare il rapporto tra giovani e anziani in Italia i dati appaiono ancora più preoccupanti. Tra il 2002 e il 2019 la popolazione totale over 65 anni è passata da 10,662 milioni a 13,693 milioni, con una crescita di 3,301 milioni di unità. Un dato utile per capire l’impatto economico e sociale di questi numeri è quello del cosiddetto “old-age dependency ratio”, ossia il rapporto tra persone in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni) e quelle che non lo sono più (over 65). In Italia questo rapporto nel 2020 era circa del 40% che tradotto significa meno di tre adulti in età lavorativa per ogni persona over 65. Considerando che l’Italia ha un tasso di occupazione del 58%, ossia 58 persone su 100 in età da lavoro che lavorano (di cui diversi part-time), è facile comprendere come si sia molto vicini ad un rapporto quasi uno ad uno tra lavoratori effettivi e persone over 65. Un dato che cresce notevolmente nelle proiezioni di Eurostat relative al 2050, superando il 70% nella maggior parte delle regioni d’Italia.
Fonte: Eurostat.
Il processo di costante invecchiamento della popolazione fin qui descritto incide profondamente sia a livello previdenziale su un sistema a ripartizione come quello italiano, sia in generale sullo squilibrio tra contribuenti e percettori di servizi di welfare. Un welfare che non è in crisi solo in termini di capacità finanziaria di erogazione dei servizi ma anche per platea di riferimento, con una riduzione della stessa a causa della frammentazione della struttura del mercato del lavoro all’interno di sistemi sociali che, come quello italiano, hanno intrecciato status, classe e diritti. Riduzione che non rispecchia però una riduzione dei bisogni effettivi, che anzi sono in crescita proprio a causa, tra l’altro, delle trasformazioni demografiche (incluso il fenomeno migratorio), generando così ulteriori disuguaglianze.
Gli approcci di fronte a questi cambiamenti non possono che essere molteplici e concentrarsi su elementi e strategie diverse. Infatti sebbene siano da apprezzare gli sforzi per investire su politiche che rallentino il calo demografico è altrettanto chiaro che prima che questi abbiano effetti concreti all’interno del mercato del lavoro dovranno passare almeno due decenni. Periodo nel quale non è certo possibile rimanere fermi perché, nel frattempo, la situazione continuerà ad aggravarsi. Occorre quindi fin da subito lavorare per politiche migratorie e di integrazione della forza lavoro straniera, che non può continuare ad essere concepita e utilizzata come forza lavoro a basso costo alimentando il dumping salariale e non valorizzando le competenze che ci sono. Allo stesso tempo è necessario lavorare per introdurre nuovi paradigmi di sostenibilità del lavoro anche in età più avanzata, considerato il disequilibrio tra percettori di pensioni e lavoratori. Questo differenziando le modalità di organizzazione del lavoro a seconda dell’età, così come dei carichi familiari e di assistenza, a partire dall’introduzione di nuove sperimentazioni. In ultimo tutto questo non si può ignorare il fatto che lo svuotamento delle coorti anagrafiche più giovani potrebbe incidere notevolmente sulla qualità del lavoro in quanto le persone più competenti da un lato, ma anche quelle meno competenti e che svolgono lavori routinari dall’altro, potrebbero richiedere maggiori standard di qualità (non solo salariale ma anche in termini di organizzazione del lavoro, orari, turnistica ecc.) spendendo il maggior potere contrattuale da essi posseduto in virtù proprio del fatto che i lavoratori potenziali sarebbero di numero ridotto rispetto all’offerta di lavoro. Un fenomeno che si inizia ad osservare seguendo la dinamica del fenomeno, invero ancora limitato in Italia ma costante, della crescita delle dimissioni che si sposano con una crescita delle nuove attivazioni di contratti di lavoro a dimostrazione di una crescita del turnover e dei flussi tra diversi posti di lavoro. In questo la domanda di lavoro generata dalle nuove tecnologie rende le competenze dei lavoratori una merce rara e aumenta ulteriormente il loro potere contrattuale, con quali conseguenze ancora non lo sappiamo, ma potenzialmente interessanti.
Francesco Seghezzi
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione in Transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
@francescoseghezz
*pubblicato anche su Avvenire, 8 febbraio 2023