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Bollettino ADAPT 15 febbraio 2021, n. 6
I cambiamenti climatici e le loro conseguenze occupano gran parte del dibattito politico e civile contemporaneo. Esistono dei provvedimenti, messi in campo da organizzazioni internazionali, volti a contenere gli effetti negativi sulla popolazione e sui territori di questi cambiamenti. I principali soggetti coinvolti nel dibattito e nella definizione delle policy a livello globale sono da un lato le Nazioni Unite con la stesura dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030 e dall’altro l’Unione Europea con l’individuazione delle priorità europee per lo sviluppo sostenibile del 2016 (Il documento racchiude un pacchetto di provvedimenti per attuare gli obiettivi indicati nell’Agenda 2030) e con il Green Deal europeo del 2019 (Il Green Deal definisce la strategia dell’Unione europea per diventare il primo continente ad impatto climatico zero entro il 2050).
Il quadro generale rimane critico (l’anno appena conclusosi è stato uno dei più caldi di sempre), ma alcuni paesi stanno lanciando dei segnali incoraggianti: ad esempio in Europa si è visto un aumento dell’uso di energie rinnovabili (circa il 10% in più in un solo anno) e, in più, a marzo l’Unione ha proposto la prima legge europea sul clima. La lotta al cambiamento climatico consiste principalmente nel mitigare i cambiamenti dovuti all’aumento delle temperature, riducendo la quantità di emissioni rilasciate nell’atmosfera e la concentrazione di biossido di carbonio. Alcuni esempi di misure di mitigazione possono essere: l’espansione della superficie boschiva (in grado di assorbire la CO2), la riduzione dell’uso di combustibili fossili, i cambiamenti negli stili di vita e nei comportamenti umani ecc. L’azione di contenimento del climate change si propone di andare ad intervenire sulle cause di questo fenomeno. Essendo però utopico pensare che gli sforzi messi in campo ora, per quanto ingenti, siano in grado di annullare il problema, occorre riflettere su un altro tipo di intervento necessario: le politiche di adattamento ai cambiamenti climatici.
Infatti, adattarsi significa mettere in campo delle strategie in grado di anticipare gli effetti del climate change per cercare di ridurne in modo efficace l’impatto, soprattutto su regioni e settori indicati come altamente vulnerabili. La mitigazione dei cambiamenti climatici lavora sulle cause mentre l’adattamento sul loro impatto. Il fine delle azioni e delle policy che verranno messe in campo nei due ambiti sono diversi e si attueranno in modo differente.
L’attuale crisi dovuta alla pandemia di SARS-CoV-2 non deve distogliere l’attenzione delle istituzioni dall’emergenza climatica, anche perché entrambi i fenomeni avranno forti ricadute su economia, occupazione e struttura del mondo del lavoro. Inoltre, alcune delle policy di adattamento ai cambiamenti climatici (che vedremo in seguito) potranno essere una spinta positiva al miglioramento dei protocolli di sicurezza, dei luoghi di lavoro, delle procedure sanitarie, che andranno ripensate, una volta finita l’emergenza, tenendo conto di quanto suggerito dalla pandemia.
Per questo è utile riprendere la guida sull’adattamento ai cambiamenti climatici stilata dalla European Trade Union Confederation (ETUC) nel 2020 e rivolta ai sindacati di tutta Europa. Il documento, intitolato Guida per i sindacati: adattamenti ai cambiamenti climatici e mondo del lavoro, riassume quali siano le possibili conseguenze sia in ambito ambientale che economico-occupazionale del climate change in Europa, stimolando il sindacato a porsi come interlocutore fondamentale per la realizzazione di adeguate politiche di adattamento. Allo stesso tempo il testo indica alcune modalità d’intervento sindacale, portando esempi di contrattazione collettiva e di azioni di lobbying, per andare a rivedere protocolli, ed anche procedure in materia di sicurezza del lavoratore.
Le ricadute possibili del climate change su economia, occupazione, salute e benessere del lavoratore sono molteplici e suggeriscono la necessità di un coordinamento tra parti sociali per avviare una riflessione sulle politiche da intraprendere. Solo per fornire un esempio: «l’ultimo rapporto PESETA III del Centro comune di ricerca dell’UE (CCR), commissionato dalla Commissione europea e pubblicato nel 2018, valuta la perdita di benessere complessiva nell’UE in uno scenario di forte riscaldamento a circa l’1,9% del PIL (240 miliardi di euro) all’anno alla fine del secolo» (Guida per i sindacati: adattamenti ai cambiamenti climatici e mondo del lavoro, paragrafo 3.1 “Impatti economici complessivi”, cit. p. 12). Si prevedono importanti ricadute in ambito occupazionale, in una stima della Commissione Europea (del 2012) si calcola che i costi economici, ambientali e sociali del mancato adattamento potrebbero aggirarsi intorno ai 250 miliardi di euro all’anno nel 2050 per l’UE nel suo complesso. L’ETUC indica anche quali siano i paesi europei che potrebbero subire maggiori conseguenze negative in ambito occupazionale ed economico: Bulgaria, Croazia, Cipro, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania e Romania. Queste stime si spiegano alla luce della grande estensione del settore agricolo e di quello turistico di questi paesi. Infatti sempre l’Unione europea indica come settori ad alto rischio in particolare agricoltura, silvicoltura, pesca e turismo, insieme ad un aumento della pressione sui servizi sanitari dei diversi paesi viste le importanti ricadute del climate change sulla salute e il benessere dei lavoratori (specie se con già manifeste patologie croniche). Questi dati non possono non far riflettere anche sull’economia del nostro paese in quanto fortemente sviluppati il settore turistico e agroalimentare.
Quali sono le azioni di prevenzione? Si potrebbe iniziare con maggiori investimenti in infrastrutture (Per approfondire segnalo articolo su The Economist, 31 ottobre 2020), rafforzamento dei sistemi di protezione sociale, interventi di bonifica in tutti i territori in cui si rilevano agenti tossici ambientali, potenziamento del servizio sanitario, prevenzione del dissesto idro-geologico ecc., ma l’elenco potrebbe continuare.
È proprio nell’attenuare l’impatto dei cambiamenti climatici in corso che si può collocare un’efficace azione sindacale. In che modo può intervenire il sindacato nel dibattito odierno? Innanzitutto, promuovendo le direttive emanate (già nel 2013) dalla Commissione europea, rivolte in particolare ai settori maggiormente a rischio. Nonostante questi interventi non abbiano un effetto immediato sull’occupazione, il sindacato ha tutto l’interesse a sollecitarne l’applicazione, perché nel lungo periodo possono svolgere un ruolo chiave nella tutela del benessere e della sicurezza sul lavoro.
Per potenziare la propria efficacia e l’adozione di strategie e politiche di adattamento incisive, l’azione sindacale andrebbe configurata su più livelli, in modo stratificato: partendo dall’Europa, passando per il livello nazionale, fino al regionale, settoriale e locale/aziendale.
Se, a livello europeo, l’azione sindacale si prospetta soprattutto come un monitoraggio continuo delle politiche intraprese e dei territori a rischio, a livello locale regionale e locale il sindacato deve invece essere parte integrante dei processi decisionali, andando a proporre interventi diversificati in base al tipo di territorio (ad esempio, servono strategie diverse per una regione a prevalenza urbana o rurale). Sempre dal coordinamento europeo possono arrivare dei modelli virtuosi di azione sindacale a cui ispirarsi; alcuni di essi sono già contenuti nella Guida fornita dal ETUC (Da notare come quasi tutti gli esempi riportati nella guida si concentrino in: Spagna, Francia, Belgio e UK) e sono suddivisi in base al livello d’azione. Di seguito sono riportati degli esempi del livello settoriale e aziendale.
A livello settoriale invece l’impegno del sindacato dovrà strutturarsi promuovendo la contrattazione collettiva e negoziando contratti collettivi settoriali volti ad adeguare le modalità lavorative seguendo le norme in materia di salute e sicurezza, misure di prevenzione, dispositivi di protezione supplementari. Alla contrattazione settoriale bisognerà affiancare un piano di informazione dei lavoratori sui rischi per la loro salute legati al riscaldamento globale, nonché sulle sue potenziali conseguenze per il loro settore e per le loro condizioni di lavoro (ad esempio attraverso opuscoli informativi o guide agli strumenti, necessarie misure di protezione). La guida riporta alcune azioni virtuose già intraprese; riportiamo le due iniziative più significative: in UK la UK Fire Brigade Union ha pubblicato il rapporto Climate change: Key issues for the Fire and Rescue Service, sostanzialmente una mappatura dei rischi per il settore dei Vigili del Fuoco. In Francia invece le federazioni sindacali del settore edile CFDT e CFTC hanno concluso un accordo sui diritti dei lavoratori in materia di salute, sicurezza e condizioni di lavoro in caso di caldo e ondate di calore.
Per quanto riguarda la contrattazione collettiva a livello aziendale l’indicazione data è di prestare particolare attenzione a quei lavoratori che operano all’aperto o con condizioni ambientali particolari (ad esempio le serre). Il sindacato dovrebbe in primis invitare l’azienda a fare costanti rilevazioni dei rischi e valutare la disposizione degli investimenti necessari a mettere in sicurezza il luogo di lavoro e adeguarlo alle norme vigenti. Inoltre, il sindacato dovrebbe sollecitare i datori di lavoro a firmare contratti collettivi aziendali che adeguino le condizioni e le procedure in materia di salute e sicurezza. In ultima istanza “ricorrere alle procedure di informazione e consultazione dei sindacati e/o dei consigli di lavoro, nonché dei comitati per la salute e la sicurezza, per raccogliere informazioni, effettuare valutazioni e adeguare le politiche aziendali” (In Guida per i sindacati: adattamenti ai cambiamenti climatici e mondo del lavoro, cit., pag. 56). Come modello di riferimento viene indicata l’azione di Hesbaye Frost & APLIGEER, un’azienda belga in cui la parte datoriale, il rappresentante sindacale e un’associazione ambientalista stanno collaborando attivamente per mettere in campo metodi di lavoro ecologici e responsabili (ivi, pag. 57). Questo esempio introduce un tema importante introdotto nel testo: la necessità del sindacato di attivare partnership con altre parti sociali (per ulteriori approfondimenti sul valore aggiunto dalla creazione di partnership tra il sindacato e altri enti, associazioni, comitati cittadini ecc. rimando a pag. 58. dove sono descritti i progetti di Allanza por el Clima (Spagna) e Climate Coalition (Belgio).
In sintesi l’azione sindacale in questo ambito deve essere orientata a minimizzare l’impatto della questione ambientale sulla salute e sicurezza dei lavoratori e, ove possibile, intervenire anche sulle ricadute occupazionali. Allo stesso tempo, però, il sindacato deve essere in grado di intercettare le nuove opportunità commerciali (e occupazionali) che un adattamento del mondo del lavoro e della produzione ai nuovi standard ambientali possono aprire. Su questo tema occorre fare alcune considerazioni: nel documento l’attenzione si concentra principalmente nelle azioni di salvaguardia della salute e sicurezza del lavoratore. Visto il momento storico che stiamo attraversando, questi temi sono di fondamentale importanza, ma non esauriscono il campo di azioni e provvedimenti necessari perché l’adattamento al climate change risulti efficace. Rivedere la normativa in tema di salute e sicurezza e aumentare l’awareness nei lavoratori è importante, così come avrà un ruolo strategico l’allargamento dei confini della contrattazione collettiva ai territori e, in generale, una maggior attenzione alla tutela ambientale da parte diritto delle relazioni industriali. Allo stesso tempo però, per poter attuare l’auspicata Just Transition (rimando a Guidelines for a just transition towards environmentally sustainable economies and societies for all del Internation Labour Organization (2015)), occorrerà concentrarsi anche su altri snodi, come ad esempio lo sviluppo di nuove professionalità necessarie per rispondere ai mutamenti del mondo del lavoro. È un tema fondamentale che viene richiamato, ma nel concreto sembrano mancare linee d’azione e provvedimenti specifici. A questo si lega il tema del rischio, legato ad un cambiamento del mondo del lavoro, non solo di veder scomparire alcune professioni, ma anche di assistere ad un calo di produttività nei settori a rischio. I dati riportati in apertura non possono lasciare indifferente il sindacato, che dovrà quindi usare gli strumenti a sua disposizione (in primis la contrattazione collettiva) per far fronte a tali rischi ripensando organicamente l’organizzazione del lavoro, al fine di ridurre al minimo un possibile calo di volumi nella produzione.
Ultimo ma fondamentale punto di riflessione: il testo si chiude sottolineando che il sindacato potrà svolgere un ruolo di raccordo e di accompagnamento, se saprà mettere in campo un personale consapevole e preparato (rimando a par. 6.7. “Aumentare la consapevolezza nei sindacati” in Guida per i sindacati: adattamenti ai cambiamenti climatici e mondo del lavoro per un ulteriore approfondimento e maggiori dati e statistiche). I riscontri sui livelli di conoscenza del personale sindacale sugli effetti dei cambiamenti climatici e dell’adattamento necessario sono alti, ma è comunque necessario che la formazione avvenga in modo continuo e aggiornato. Vengono quindi individuati alcuni strumenti di cui i sindacalisti possono disporre per ampliare la sensibilizzazione e la preparazione quali, ad esempio, corsi di formazione o convegni online promossi dall’Unione Europea, oppure, riprendendo il modello belga, la creazione di una rete di sensibilizzazione per i sindacalisti (denominata in questo caso RISE) che offra percorsi di formazione specifiche per tutti i soggetti coinvolti.
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro,
ADAPT, Università degli Studi di Siena