Quando si pone l’attenzione sui cambiamenti del mercato del lavoro spesso l’immagine presupposta è quella dell’operaio, o più in generale il lavoratore nella manifattura. L’avvento di nuove tecnologie è infatti rappresentato, sia nel dibattito mediatico che nella cultura comune, da nuovi robot che ruberebbero lavoro alle braccia umane, condannando alla disoccupazione tecnologica la classe operaia che, invece che in paradiso, si ritroverebbe in uno stato di inattività.
Si tratta di una rappresentazione non certo senza fondamento, se è vero che il numero di occupati nei settori industriali dei paesi occidentali è in costante diminuzione ormai dagli anni ’60. Nell’immediato secondo dopoguerra negli Stati Uniti un lavoratore su tre era occupato nell’industria, oggi solo uno su undici, ad esempio. E in Italia gli occupati nell’industria sono oggi ancora ampiamente sopra le medie dei paesi OCSE, segnale che dovrebbe farci preparare ad una ulteriore contrazione nei prossimi anni. Ma allo stesso tempo non si può ignorare quanto l’industria stessa, e in particolare la manifattura, sia cambiata.
Osservatori da più fronti stanno infatti descrivendo come l’impatto della globalizzazione e quello parallelo dello sviluppo tecnologico abbiano cambiato il volto dell’industria, e con esso quello dei suoi lavoratori, come ha raccontato anche l’Economist nel suo ultimo numero.
In Italia, recentemente, è stato il Libro verde di ADAPT e FIM-CISL in commento al piano Industria 4.0 del governo a provare ad affrontare questi temi. La premessa del ragionamento è la seguente: se l’internazionalizzazione, attraverso la delocalizzazione della produzione di diversi componenti che poi vengono assemblati nei paesi sviluppati, ha generato il concetto di global value chain, oggi la diffusione della cosiddetta Internet delle cose, che prende forma nell’Industry 4.0, rivoluziona ancor di più il mondo dell’industria.
Il primo elemento da considerare è che il ruolo del consumatore infatti è in continua evoluzione verso una sempre maggior centralità nei processi di progettazione dei prodotti, che desidera il più personalizzati e modulabili possibile.
La conseguenza è che l’input diretto delle scelte del consumatore nella produzione non può che minare la struttura orizzontale delle industrie tradizionali, spingendole verso modelli di open production che prima erano relegati al mondo dei piccoli artigiani. Questo impatta non poco sulla linearità della produzione manifatturiera che, anche a livello globale, si sviluppava mediante filiere produttive standard, riducendo i costi mediante economie di scala e basso costo del lavoro. Prova ne sono i casi di ritorno in patria di imprese delocalizzate, come accaduto recentemente in Germania, nella quale sono tornate aziende che producevano in Cina.
Allo stesso modo la scelta di Ford di investire negli stabilimenti in USA, sebbene influenzata da Trump, può essere letta nell’ottica di produzioni che richiedono competenze e logistica diverse dal passato. Il secondo elemento riguarda le attività svolte delle industrie, infatti una componente sempre maggiore del valore aggiunto prodotto, e insieme anche dei costi delle risorse, si ritrova nelle attività di ricerca e sviluppo per la realizzazione di prodotti personalizzati e nei servizi che le imprese offrono insieme ai prodotti stessi. E soprattutto risulta quindi molto difficile dipingere oggi l’economia con i vecchi colori dei settori produttivi: industria o servizi.
La cosiddetta servitizzazione dell’industria da un lato, e l’industrializzazione dei servizi dall’altro, scardinano molte delle certezze novecentesche. Se infatti un prodotto oggi è in grado di essere monitorato in tempo reale dalla casa madre grazie ad una connessione mobile, molte delle attività dell’impresa stessa non si concentreranno solo sulla produzione, ma sui servizi correlati all’uso del bene stesso. La principale conseguenza, oltre alla rivoluzione dei modelli di business, è sul mondo del lavoro. E il cortocircuito si crea in due modi: innanzitutto illudendo i lavoratori che gli impieghi propri di un modello produttivo che non c’è più potranno tornare; in secondo luogo paragonando i livelli occupazionali attuali in questi settori con quelli precedenti la grande crisi quando si voglia valutare il superamento o meno di quest’ultima.
Se le imprese produttrici di beni fisici oggi generano ampi margini grazie ai servizi che offrono, avranno bisogno di lavoratori con competenze differenti da quelle di coloro che hanno dovuto licenziare durante i periodi di calo della produzione, per cui spesso il paragone è molto difficile. Nuova impresa quindi, ma anche nuovo lavoro, come ha ricordato l’OCSE in un recente seminario alla Camera.
Riconoscere che oggi l’ecosistema industriale è cambiato e comprende nuovi attori, e costruire spazi di libertà affinché questi attori possano liberare il loro potenziale non può che essere la priorità per non ritrovarsi spaesati in un Novecento che non c’è più.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt
Direttore ADAPT University press
*pubblicato anche su Il Foglio, il 20 gennaio 2017