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Bollettino ADAPT 22 maggio 2023, n. 19
Il 2021 è stato un anno che ha registrato particolari innovazioni sul fronte della mobilità urbana dei lavoratori. In non pochi contratti aziendali, infatti, ha cominciato ad appalesarsi la possibilità per i lavoratori di ricorrere al car sharing o al car pooling per agevolare gli spostamenti dalla propria residenza o domicilio verso il luogo di lavoro (si tratta perlopiù di una misura di welfare, come testimonia, ad esempio, il Contratto integrativo aziendale di Leonardo; per un commento complessivo, cfr. G. Pigni, Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/41 – L’ampio ed equilibrato rinnovo aziendale in Leonardo, in Bollettino ADAPT 21 giugno 2021, n. 24).
Anche il legislatore, dal canto suo, ha favorito questo tipo di mobilità. Con il decreto-legge n. 73 del 2021, è stato istituito, per l’anno 2021, un fondo presso il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità di 50 milioni di euro con la finalità di erogare dei contributi alle imprese dotate del mobility manager e di un piano di mobilità di cui all’art. 229, comma 4 del decreto-legge n. 34 del 2020, al fine di promuovere «iniziative di mobilità sostenibile, incluse iniziative di car-pooling, di car-sharing, di bike-pooling e di bike-sharing, in coerenza con le previsioni dei piani degli spostamenti casa-lavoro adottati entro il termine del 31 agosto 2021» (art. 51, comma 7, lett. a). Questo perché, secondo il legislatore, le particolari forme di mobilità indicate dalla norma potrebbero contribuire a far diminuire il numero di autovetture e mezzi in circolazione e conseguentemente i livelli di emissione di CO2 nell’atmosfera.
Di che cosa parliamo quando facciamo riferimento al piano di mobilità? Introdotto per la prima volta dal Decreto 27 Marzo 1998 del Ministero dell’ambiente (c.d. Decreto Ronchi), il piano degli spostamenti casa-lavoro dei dipendenti (meglio noto come “PSCL”) deve essere organizzato da un “responsabile della mobilità aziendale” (c.d. mobility manager) ed è finalizzato a ridurre l’uso del mezzo di trasporto privato individuale e a consentire una migliore organizzazione degli orari, per limitare la congestione del traffico nelle città. Non avendo avuto una particolare diffusione, anche per l’assenza di un sistema sanzionatorio per l’impresa che si renda inadempiente (così, V. De Lorenzo, Chi è il Mobility Manager?, in Bollettino ADAPT 29 maggio 2017, n. 20), l’organizzazione del PSCL viene rilanciata tra il 2020 e il 2021. In particolare, l’art. 229, comma 4 del decreto-legge n. 34 del 2020 si esprime in termini di doverosità verso le imprese, laddove precisa che queste “…sono tenute ad adottare, entro il 31 dicembre di ogni anno, un piano degli spostamenti casa-lavoro del proprio personale dipendente finalizzato alla riduzione dell’uso del mezzo di trasporto privato individuale nominando, a tal fine, un mobility manager con funzioni di supporto professionale continuativo alle attività di decisione, pianificazione, programmazione, gestione e promozione di soluzioni ottimali di mobilità sostenibile”. Peraltro, per favorire una maggiore diffusione di questa misura, nel 2021 il legislatore ha disposto anche un incentivo per le imprese che avessero adottato un piano di mobilità.
In tale quadro, il mobility manager è colui che non solo collabora alla stesura del piano di mobilità ma gestisce anche le “domande di mobilità” dei dipendenti e quindi autorizza, per conto del datore di lavoro, i lavoratori e le lavoratrici ad utilizzare alcuni mezzi piuttosto che altri per lo spostamento casa-lavoro (cfr. ancora l’art. 229, comma 4 del decreto-legge n. 34 del 2020). L’art. 51, comma 7 del decreto-legge n. 73 del 2021 ha ampliato le competenze di questa figura, accordandogli anche la possibilità di autorizzare i dipendenti a fare ricorso al car-pooling, al car-sharing, al bike-pooling e al bike-sharing, per raggiungere il posto di lavoro.
Di fronte a questi cambiamenti organizzativi, la tutela dell’infortunio in itinere potrebbe tornare a far parlare di sé. E’ noto a molti, infatti, come la normativa in materia preveda dei rigorosi presupposti per accordare la tutela assicurativa nel caso in cui il lavoratore si infortuni “durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti”; peraltro, l’utilizzo di mezzi di mobilità diversi da quelli pubblici per compiere tali tragitti sono legittimi ai fini dell’accesso alla tutela assicurativa solo quando necessari (cfr. art. 2, comma 3 del D.p.r. n. 1124 del 1965).
Per normale percorso casa-lavoro, deve intendersi non il percorso più breve (come pure è stato sostenuto in passato); piuttosto, deve trattarsi di un percorso abituale e la scelta non deve dipendere da ragioni del tutto personali o comunque estranee all’attività lavorativa (così Cass. Civ. 13 gennaio 2014, n. 475; Cass. Civ. 5 febbraio 2019, n. 3376). Il requisito della abitualità e quindi della normalità viene meno, infatti, quando vi sia una “macroscopica divergenza del tracciato prescelto” tale da “non risultare ragionevolmente giustificabile, se non per dimostrare esigenze inerenti allo stretto raggiungimento del luogo di lavoro” (Cass. Civ. 25 settembre 2006, n. 5603). Quindi, salvo che non si dimostri in concreto il contrario (o che vi sia stato un caso di forza maggiore, come prevede la disposizione normativa), un cambiamento ingiustificato del percorso necessitato a raggiungere il luogo di lavoro non dà diritto alla copertura assicurativa ex art. 2, comma 3 del D.p.r. n. 1124 del 1965.
Quanto alla scelta del mezzo, posto che l’art. 2, comma 3 riconosce esplicitamente che “l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato”, dalla formulazione della disposizione se ne è pacificamente desunto che l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere non è di per sé subordinata all’utilizzo di un mezzo di trasporto specifico (G. Corsalini, Gli infortuni in itinere, 2009, Ipsoa, p. 51). Semmai, è il concetto di necessità ad aver impegnato i giudici a comprendere come e quando si possa configurare una situazione di necessità tale da giustificare l’impiego del mezzo privato e quindi l’estensione della copertura assicurativa. Secondo un primo orientamento, la necessità emerge a fronte dell’inadeguatezza dei mezzi pubblici di trasporto tali da non consentire al lavoratore la possibilità di raggiungere il posto di lavoro (Cass. Civ. 23 marzo 1989, n. 1483). Tale necessità è stata ravvisata anche quando i mezzi pubblici hanno imposto al lavoratore lunghe attese o un grosso dispendio economico. Allo stesso modo, lo stato di necessità è stato ritenuto configurabile anche a fronte dell’impossibilità di percorrere a piedi il tragitto per raggiungere il posto di lavoro a causa della eccessiva distanza (Cass. Civ. 10 dicembre 1993, n. 12179). Più di recente, la necessità è stata giustificata anche alla luce del fatto che impiegando un mezzo privato, sarebbe diminuito il tempo necessario per raggiungere il posto di lavoro (Cass. Civ. 29 luglio 2010, n. 17752). Un secondo orientamento giurisprudenziale, invece, ritiene che la necessità di ricorrere all’impiego del mezzo privato vada verificata volta per volta, secondo il criterio di ragionevolezza, in modo tale da verificare in concreto le diverse situazioni (ex multis, Cass. Civ. 3 agosto 2001, n. 10750). In altri termini, il criterio della necessità “non deve essere inteso in senso assoluto, essendo sufficiente una necessità relativa; ossia emergente anche attraverso i molteplici fattori, non definibili in astratto, che condizionano la scelta del mezzo privato rispetto a quello pubblico (esigenze personali e familiari, altri interessi meritevoli di tutela)” (Cass. Civ. 7 luglio 2017, n. 16835).
In un solo caso, la legge ha disposto una sorta di presunzione, per cui l’utilizzo di quel determinato mezzo può dirsi sempre necessitato. L’art. 5, comma 4 della legge n. 221 del 2015 ha aggiunto un inciso all’art. 2, prevedendo che “l’uso del velocipede” di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 285 del 1992 “deve, per i positivi riflessi ambientali, intendersi sempre necessitato”. Posto che l’art. 1, comma 75 della legge n. 160 del 2019 equipara ai velocipedi “i monopattini a propulsione prevalentemente elettrica non dotati di posti a sedere, aventi motore elettrico di potenza nominale continua non superiore a 0,50 kW”, deve ritenersi che tale presunzione sia estesa anche a questi ultimi veicoli. Il perché rispetto a questi veicoli il legislatore abbia ritenuto di dover fissare questa presunzione è stato spiegato dallo stesso nella legge: si ritiene che riconoscendo di diritto la legittimità dell’impiego di tale mezzo si valorizzino standard di comportamento riconducibili ai valori guida dell’ordinamento giuridico, tra i quali figura la tutela dell’ambiente. Del resto, già prima della modifica legislativa del 2015, l’INAIL aveva riconosciuto l’uso necessario del velocipede come anche della bicicletta in ragione di una “sempre maggiore attenzione a livello ambientale e sociale orientata a favore di una mobilità sostenibile che annovera tra le sue forme l’uso della bicicletta” (INAIL, Istruzioni operative del 7 novembre 2011; sul punto, cfr. anche circolare INAIL 25 marzo 2016, n. 14; nello stesso senso Cass. Civ. Sez. Lav. 31 agosto 2018, n. 21516).
Alla luce dell’attuale quadro normativo e giurisprudenziale, se non si pongono particolari problemi di tutela per la mobilità casa-lavoro ricorrendo al bike-sharing, sorge invece il dubbio se al lavoratore che ricorra all’utilizzo di car-pooling o di car-sharing per raggiungere il posto di lavoro possa essere accordata la tutela assicurativa dell’infortunio in itinere. Partendo dalla prima casistica, il car-pooling è una modalità di mobilità che comporta l’uso di una sola automobile per trasportare più persone che devono raggiungere il medesimo luogo. In questo caso, la “normalità del percorso” casa-lavoro potrebbe perdere il requisito della abitualità perché il dipendente che si fa carico di trasportare anche gli altri colleghi potrebbe essere costantemente costretto a cambiare il percorso in ragione del luogo in cui si trovano gli altri lavoratori ai quali fornire il passaggio. Del resto, è già stato reso noto dalla cronaca che l’INAIL abbia negato – legittimamente a parere della giurisprudenza – l’indennizzo per infortunio in itinere in un caso similare (si tratta del noto caso del barman che ha accompagnato il collega nel tragitto casa-lavoro rimasto poi vittima di un incidente stradale; cfr. Cass. Civ. 3 agosto 2021, n. 22180). Alla medesima questione si espone l’utilizzo del car-sharing, posto che in non pochi casi l’utilizzatore della vettura è obbligato a fare alcuni percorsi e non altri, ad accedere ad alcune arterie stradali e non ad altre (in virtù delle zone segnalate dall’app, utilizzata per tracciare il tempo di utilizzo della macchina e calcolare quindi il costo del servizio). I termini del problema, poi, si complicano laddove l’utilizzo di queste due modalità di spostamento non possono ritenersi necessitate ai sensi dell’art. 2, comma 3 del del D.p.r. n. 1124 del 1965. Il lavoratore, dunque, potrebbe vedersi facilmente sguarnito della tutela assicurativa.
I problemi qui esposti possono ritenersi superati se si tiene in considerazione che diversi provvedimenti normativi hanno legittimato tali modalità di spostamento purché adottate secondo le modalità e le direttive impartite dal datore di lavoro: si fa qui riferimento al piano di mobilità e al ruolo del mobility manager (cfr. art. 229, comma 4 del decreto-legge n. 34 del 2020), rispetto al quale, anche l’INAIL ha fornito delle istruzioni operative (cfr. INAIL, Piano degli spostamenti casa-lavoro, 22 dicembre 2021). In questo caso, la volontà del legislatore di autorizzare tali pratiche potrebbe essere ricondotta, sul piano analogico, a quella volontà che ha mosso lo stesso a contemplare il velocipede come mezzo di trasporto ritenuto in via presuntiva sempre necessitato, in quanto volto a tutelare il bene ambiente (entrambe le modalità di spostamento, infatti, comportano un minor numero di autovetture in circolazione e quindi una conseguente riduzione di CO2 nell’ambiente). La tutela dell’ambiente, dunque, che oggi viene accentuata dalla modifica dell’art. 41 Cost., potrebbe essere la “leva giuridica” attraverso la quale rileggere il concetto di “normale percorso di lavoro” rispetto al car-pooling e al car-sharing, tenendo conto del resto di quel recente orientamento giurisprudenziale secondo il quale il concetto di “normalità” del percorso va necessariamente valutato anche alla luce dei “valori guida dell’ordinamento giuridico” (Cass. Civ. 13 aprile 2016, n. 7313), tra i quali non può che rientrare anche la tutela ambientale. Da qui, la possibilità di sostenere che a tutti i lavoratori dipendenti di aziende che adottino un piano di mobilità nel quale sia contemplata tanto l’ipotesi di car-sharing che di car-pooling (purché nel piano siano definite modalità e limiti di utilizzo di tali mezzi, quali numero minimo o massimo di passeggeri da trasportare, quali piattaforme di car-sharing poter utilizzare, a chi addebitare il costo, quali autorizzazioni richiedere al datore di lavoro etc.) non possono ritenersi scoperti dalla tutela assicurativa obbligatoria in caso di infortunio in itinere; anzi, per questi ultimi, potrebbe operare la presunzione della necessità già prevista per il velocipede (giacché anche in questo caso vi è la finalità di tutelare un bene costituzionalmente rilevante, quale è l’ambiente).
Sennonché, a nostro avviso, anche a fronte di un accoglimento di questa interpretazione – che si pone comunque in controtendenza giacché l’impostazione del sistema assicurativo è improntata al criterio della selettività e della tassatività delle ipotesi di indennizzo (V. Cangemi, L. M. Pelusi, G. Piglialarmi, Le tutele assicurative: il caso italiano nel confronto comparato, vol. IV, Adapt University Press, 2021) – permangono comunque dei problemi di sistema giacché la previsione di un piano di mobilità e della figura del mobility manager (che legittimerebbe in un certo senso il ricorso al car-sharing e al car-pooling laddove previsto) è obbligatoria – o quantomeno incentivata dal legislatore – solo per «le imprese e le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165, ad eccezione delle istituzioni scolastiche, con singole unità locali con più di 100 dipendenti ubicate in un capoluogo di Regione, in una Città metropolitana, in un capoluogo di Provincia ovvero in un Comune con popolazione superiore a 50.000 abitanti» (art. 229, comma 4 del decreto-legge n. 34 del 2020). In altri termini, dunque, le imprese non aventi tali caratteristiche non sono obbligate ad adottare un piano di mobilità dal quale poter desumere come necessitato e quindi tutelato l’utilizzo del car-sharing o del car-pooling. Con buona pace per la tutela dei lavoratori, i quali, in caso di incidente, sarebbero comunque onerati di dimostrare l’impiego necessario della modalità di mobilità ed anche la normalità del percorso svolto.
Che il problema qui evidenziato resti ancora irrisolto ne dà prova una proposta di legge pervenuta in Parlamento 6 anni fa (poi abbandonata), in cui si prospettiva l’opportunità di modificare l’art. 2, comma 3 del del D.p.r. n. 1124 del 1965 al fine di prevedere la possibilità di riconoscere l’infortunio in itinere anche nel caso di utilizzo di un servizio condiviso di un veicolo privato nel percorso tra casa e lavoro (car pooling). Secondo i firmatari di tale proposta, l’utilizzo di tale servizio deve intendersi sempre necessitato, per gli effetti positivi sulla riduzione dell’inquinamento e dei costi del trasporto, a condizione che il lavoratore dia preventiva comunicazione per scritto al datore di lavoro del veicolo utilizzato, dei soggetti che condividono il servizio, dell’abilitazione alla guida del conducente o dei conducenti del veicolo, del percorso e della relativa fascia oraria almeno sette giorni prima della data di attivazione del servizio (cfr. proposta di legge 10 novembre 2017, n. 4733, Modifiche all’articolo 2 del testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, concernenti l’efficacia della copertura assicurativa nei casi di uso condiviso di veicoli privati). Una modifica di tale portata avrebbe certamente comportato l’aggiornamento del concetto di “normale percorso” che il lavoratore compie per recarsi dalla propria abitazione al luogo di lavoro.
Al netto di questo possibile vulnus normativo, dunque, ci pare utile segnalare che laddove la contrattazione collettiva abbia introdotto particolari modalità di mobilità, anticipando – come del resto accade di frequente – il legislatore nell’attività di tutela del bene ambiente, sarebbe utile che i datori di lavoro, anche di comune accordo con le organizzazioni sindacali, disciplinino le modalità di utilizzo del car-sharing o del car-pooling, soprattutto quando le imprese non siano obbligate ad adottare un piano di mobilità ai sensi della normativa vigente. Infatti, il fatto che una delle due modalità di mobilità venga utilizzata dal lavoratore secondo le direttive impartite dal datore di lavoro, in caso di incidente, potrebbe certamente rivelarsi più agevole l’accertamento del nesso eziologico tra le modalità di spostamento e il raggiungimento del luogo di lavoro. In attesa – s’intende – di un (necessario) intervento del legislatore.
Giovanni Piglialarmi
Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia