Che le collaborazioni a progetto rappresentino uno degli esempi più chiari di controversa disciplina normativa del rapporto di lavoro costituisce un’acquisizione ormai pacifica: a testimoniarlo possono essere annoverati non soltanto gli interventi legislativi succedutisi in argomento – la «riforma» Biagi, la «controriforma» Fornero ed i correttivi alla medesima introdotti dalla legge Giovannini – quand’anche le variegate interpretazioni ministeriali, ma soprattutto la copiosa produzione giurisprudenziale, la quale, ad ogni grado di giudizio, non smette di decidere su controversie talvolta iniziate ancor prima dell’emanazione del decreto legislativo n. 276/2003, ovvero da quest’ultimo regolate e/o proseguite con la cd. legge Fornero, creando un tessuto interpretativo che potrebbe costituire esso stesso un codice di regolazione di questa tipologia contrattuale.
Nel descritto contesto appare inseribile la pronuncia della Cassazione del 24 ottobre 2014, n. 22690, la quale, pur chiamata a risolvere una controversia sorta ormai oltre un ventennio fa e non ancora considerabile definita, ha enucleato due principi importanti nella complessa disciplina delle collaborazioni a progetto. La vicenda è sintetizzabile nei termini che seguono: un ingegnere, svolgente prestazioni lavorative dal 1991 al 1994 per conto di una società, rivendicava la natura subordinata dell’intercorso rapporto di lavoro, chiedendo, oltre alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli, la corretta qualificazione del rapporto, con conseguente reintegra nel posto di lavoro ed attribuzione di quanto dovuto per legge a titolo di retribuzione e voci correlate, indennità di preavviso e trattamento di fine rapporto. Accolto il ricorso in primo grado, l’appello ne ribaltava l’esito, generando la prima impugnazione in Cassazione, la cui decisione del 19 novembre 2003, n. 17549 cassava con rinvio la sentenza di secondo grado, viziata, a giudizio della Suprema Corte, per aver negato la natura subordinata del rapporto di lavoro invocando i meri elementi cd. sussidiari ed omettendo qualunque accertamento in concreto tanto della volontà delle parti quanto della concreta attuazione degli accordi negoziali. Nella successiva fase rescissoria, un’altra Corte d’Appello, che avrebbe dovuto decidere applicando il principio di diritto sancito dalla pronuncia di cassazione, commetteva lo stesso errore del precedente collegio giudicante, nuovamente negando la natura subordinata del rapporto di lavoro con una motivazione slegata dalle risultanze istruttorie e semplicemente illustrativa di una teorica distinzione tra le tipologie di lavoro autonomo e subordinato.
La riportata decisione della Corte di Cassazione merita di esser segnalata per due statuizioni contenute nella seppur breve motivazione che caratterizza la decisione. In via preliminare occorre ricordare che, per pacifico orientamento curiale, è la soggezione al potere direttivo, disciplinare e di controllo ad opera del datore di lavoro-committente il discrimen necessario per operare un’efficace distinzione tra lavoro autonomo e subordinato (tra le tante, Cass. civ., 28 settembre 2006, n. 21028, 25 ottobre 2004, n. 20669, 23 luglio 2004, n. 13884, 13 febbraio 2004, n. 2824, nonché, più recentemente, 28 luglio 2008, n. 20532 con espresso riferimento alla specificità dell’incarico e delle modalità attuative). In mancanza di tale criterio essenziale, la sussistenza di elementi cd. residuali, quali un orario di lavoro prestabilito, l’oggetto ed il luogo della prestazione, l’esistenza o meno di un’organizzazione d’impresa in capo al collaboratore con relativo rischio, l’esecuzione della prestazione con materiale e/o attrezzature appartenenti al committente, il pagamento a scadenze periodiche, può indirizzare il giudicante verso una qualificazione in termini subordinati del rapporto contestato (fra le molte, Cass. civ., 14 marzo 2006, n. 5495, 20 marzo 2003, n. 9900, 5 aprile 2002, n. 4889, 23 ottobre 2001, n. 13207).
La pronuncia in commento si caratterizza per aver precisato, peraltro non in via isolata (vd. Cass. civ. 27 novembre 2002, n. 16805), l’insufficienza dei criteri cd. sussidiari per la qualificazione del rapporto di lavoro diversa da quanto è ricavabile dal contratto, essendo al contrario necessario indagare la volontà negoziale ed il comportamento delle parti nell’esecuzione dell’accordo, chiarendo altresì che non «costituisce parametro valido per determinare la natura subordinata del rapporto la continuità per un certo periodo di tempo (…) della prestazione lavorativa di progettista atteso che la continuità della prestazione coordinata e prevalentemente personale riconducibile alla natura del rapporto è svincolata dall’occasione in cui si manifesta la necessità dell’incarico professionale, assumendo rilevanza la causa dell’incarico stesso (Cass. n. 2120/2001)».
Tali precisazioni, per quanto relative ad una disciplina ormai non più in vigore, nondimeno risultano significative nell’attuale assetto normativo, posto che le modifiche di legge intervenute e l’interpretazione fornitane dal Ministero del lavoro con le circolari dell’11 dicembre 2012, n. 29 e 29 agosto 2013, n. 35 (entrambe su www.bollettinoadapt, Indice A-Z, rispettivamente voci Riforma Fornero e Call center, ndr) hanno rinvenuto proprio nello svolgimento di «compiti meramente esecutivi e ripetitivi» gli elementi sintomatici della scarsa genuinità del progetto. Se per il Supremo Collegio l’unico presupposto per poter validamente contestare la natura subordinata di un rapporto di lavoro a progetto rimane l’accertamento della volontà negoziale e della reale esecuzione contrattuale, a poco rilevando la continuità della prestazione resa, è ipotizzabile che il discostamento tra il dettato normativo e l’orientamento curiale sarà foriero di ulteriore confusione sul punto.
In conclusione, se gli ulteriori decreti attuativi del Jobs Act interesseranno, come pur annunciato, le collaborazioni a progetto, la speranza è che in luogo di un loro improbabile – e, con facile prevedibilità, insostenibile – superamento, il Governo si indirizzi verso l’approfondimento della definizione del concetto di «coordinamento», che, anche sulla falsariga delle osservazioni svolte da autorevole dottrina sulla disciplina del lavoro autonomo poco più di un anno fa, costituisce il solo criterio utile per sottrarre tale tipologia contrattuale vuoi ad una confusione definitoria, vuoi ad un uso elusivo della normativa.
Giovanna Carosielli
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@GiovCarosielli
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Cassazione: gli elementi sussidiari e la continuità della prestazione non bastano per inficiare il progetto