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Bollettino speciale ADAPT 25 febbraio 2021, n. 1
In una epoca straordinaria come quella che viviamo pare tornare prepotentemente di moda la parola concertazione. È bastata l’inedita mossa di Mario Draghi, alle prese con la formazione del nuovo Governo, di consultare non solo i partiti politici, come da prassi, ma anche le rappresentanze di lavoratori e imprese, per richiamare alla mente una stagione lontana e per molti gloriosa. Il riferimento è al celebre protocollo Ciampi-Giugni del luglio 1993 con cui si aprì il cantiere della modernizzazione del nostro sistema di relazioni industriali e dello stesso mercato del lavoro per far fronte a una diversa, ma pur sempre eccezionale, situazione emergenziale che interessava il nostro Paese.
Avremo modo di valutare nei prossimi mesi se il metodo della concertazione sarà davvero il faro della nuova azione di Governo su materie economiche che, non di rado, appaiono molto divisive come indica la prima questione sul tavolo del nuovo Ministro del lavoro e cioè la proroga o meno del blocco generalizzato dei licenziamenti. E tuttavia la sottoscrizione lo sorso 5 febbraio della ipotesi di rinnovo del CCNL della meccanica, simbolicamente raggiunta prima della formazione del nuovo Governo, sembra indicare con forza quel recente e rinnovato protagonismo delle relazioni industriali partecipative che un attento osservatore potrebbe far risalire alla delicata fase di gestione del lockdown, quando il protocollo condiviso del 14 marzo, tra Governo e parti sociali sulle misure di contrasto e contenimento della pandemia nei luoghi di lavoro, ha consentito di tenere aperte le attività economiche essenziali e di gestire poi con relativa tranquillità la progressiva ripresa della attività produttive. E questo sino al punto di indurre il legislatore (con l’art. 29-bis del d.l. n. 23/2020, convertito in l. n. 40/2020) a disporre che l’integrale adempimento della obbligazione prevenzionistica di cui all’art. 2087 del Codice Civile è soddisfatto dalla «applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso» e delle altre misure «contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
Chiaramente il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici non poteva ripercorrere una strada di forte innovazione, come quella aperta nel rinnovo del 2016 sancita dal riconoscimento di 200 euro di flexible benefits e dalla solenne affermazione, rimasta poi ampiamente disattesa, di un moderno diritto soggettivo alla formazione quale modalità principale di abilitazione del lavoratore ai nuovi processi produttivi indotti dalla digitalizzazione. La severità della situazione economica e occupazionale imponeva un sano pragmatismo e dunque, prima di ogni altra cosa, la salvaguardia dei trattamenti retributivi minimi che, più che in passato, sono il cuore della intesa. Il risultato finale è un aumento per la vigenza contrattuale, fino al 30 giugno 2024, pari a 112 euro suddiviso in quattro tranche: 25 euro a giugno 2021, 25 euro a giugno 2022, 27 euro a giugno 2023 e 35 euro a giugno 2024.
Se è evidente come tale suddivisione indichi la volontà di contemperare il necessario aumento salariale con la sostenibilità dello stesso da parte delle imprese, resta da decifrare se l’intesa si ponga o meno in linea con le previsioni del «Patto della Fabbrica» del marzo 2018. L’analisi dei rinnovi del 2020 condotta nell’ambito dell’Osservatorio ADAPT sulla contrattazione collettiva mostra, in effetti, come i parametri oggettivi stabiliti nel predetto patto siano sistematicamente saltati anche se non sempre in forma evidente o eclatante. E anche nel recente rinnovo della metalmeccanica si registra ora un incremento del trattamento economico minimo (TEM) ulteriore rispetto a quanto definito dall’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato (IPCA). È vero che, in base a quanto definito all’interno del Patto della fabbrica, è riconosciuta la possibilità di modificare il valore del TEM in ragione di non meglio definiti processi di trasformazione e/o di innovazione organizzativa. Ed è questo quanto hanno previsto i firmatari dell’intesa, anche se appare controverso se il cambiamento organizzativo in parola possa davvero registrarsi al livello nazionale e non invece, più propriamente, nell’ambito delle intese aziendali.
Gli elementi di novità rispetto al meccanismo definito dal Patto della Fabbrica non si fermano qui. All’interno della intesa è infatti previsto che l’andamento IPCA possa modificare il TEM solo se risultasse superiore agli importi degli incrementi retributivi complessivi di riferimento per ogni singolo anno individuati dal contratto. Ne deriva quindi un quadro nel quale le parti procedono chiaramente a seguire una via che si discosta parzialmente da quanto definito a livello interconfederale, preferendo un approccio che, in base ai punti di vista, può essere letto come migliorativo della disciplina del patto oppure meramente in contrasto alla stessa.
Le riflessioni “politiche” che si potrebbero sviluppare sul punto sono ovviamente molteplici. Chi osserva da studioso le dinamiche contrattuali sui trattamenti retributivi non può che limitarsi a registrare quanto la realtà del nostro sistema di relazioni industriali propone e che, alla luce dei primi anni di funzionamento del Patto della fabbrica, non si può spiegare unicamente con l’eccezionalità del momento e il giusto riconoscimento di congrui importi economici a coloro che hanno consentito il funzionamento delle fabbrica in piena emergenza sanitaria. Vero è del resto che il fronte imprenditoriale porta a casa, dopo gli infruttuosi tentativi negli anni passati, la riforma del sistema di classificazione e inquadramento professionale che risaliva agli anni Settanta del secolo scorso e anche importanti innovazioni sui temi della formazione continua, della formazione professionale e del raccordo con il sistema scolastico (alternanza, sistema retributivo dell’apprendistato, ecc.).
Molto dipenderà, a questo punto, dalla implementazione della riforma e dalla sua attuazione nei contesti produttivi posto che è in questa parte del contratto che si ritrovano le chiavi di misurazione del valore economico di scambio del lavoro. Il punto da comprendere, insomma, è se il sistema di inquadramento si limiterà a fissare dei livelli retributivi tendenzialmente standardizzati o se invece innescherà, soprattutto a livello aziendale, meccanismi virtuosi per la misurazione del valore reale della prestazione del singolo e del suo apporto individuale come molti contratti aziendali stanno oggi iniziando a sperimentare con gradi alquanto diversificati di successo e soddisfazione.
È noto, del resto, come il sistema di inquadramento previgente si basasse essenzialmente sulle competenze tecnico-specialistiche del lavoratore e sul suo grado di autonomia. Ora invece, ai due criteri storici, si aggiungono quelli che sono definiti “criteri di professionalità”: competenze trasversali, polivalenza, polifunzionalità e miglioramento continuo ed innovazione correlati ai nuovi sistemi integrati di gestione.
Inoltre, a questa novità le parti affiancano una riforma della stessa struttura contrattuale. Nel sistema di classificazione contenuto nel contratto collettivo previgente i lavoratori venivano inquadrati in una classificazione unica costituita da dieci categorie professionali, ciascuna suddivisa a sua volta in una declaratoria generale, mansioni ed esemplificazione dei profili professionali. Con il rinnovo, oltre alla esemplificazione di una serie di nuovi profili professionali, si registra l’introduzione di una struttura basata su quattro campi di responsabilità e ruolo: campo D dedicato ai ruoli operativi, campo C dedicato ai ruoli tecnico-specifici, campo B riservato ai ruoli specialistici e gestionali e, infine il campo A nel quale sono classificati i ruoli di gestione del cambiamento e innovazione. Tale mutamento di approccio, che introduce concetti importanti come quelli di “professionalità” e “ruolo”, deve essere letto con fiducia ma, come detto, anche con qualche cautela rispetto al suo effettivo recepimento nelle singole realtà produttive soprattutto in quelle che sono prive di contrattazione aziendale o che ancora diffidano di forme dirette di partecipazione dei lavoratori ai processi organizzativi che sono poi una delle principali leve della competitività delle moderne imprese.
In questi termini restano tuttora aperte le sfide del rinnovo del 2016 e cioè la capacità di rendere effettivo il diritto soggettivo alla formazione, in contesti produttivi chiamati senza prove di appello alla sfida della digitalizzazione e della transizione ecologica, come anche una più lungimirante interpretazione delle misure di welfare aziendale che devono prepotentemente entrare nello scambio economico e nelle dinamiche della produttività rispetto alla attuale degenerazione nell’utilizzo di facili scorciatoie come i buoni benzina e i pacchi della spesa. Soprattutto resta aperta la sfida della contrattazione integrativa e da questo punto di vista si segnala la previsione secondo cui le parti paiono interessate ad avviare azioni di verifica e monitoraggio sui contratti aziendali. Operazione decisiva, per comprendere anche ruolo e funzioni attuali del contratto collettivo nazionale di lavoro, e che crediamo però possa essere condotta solo con una convita apertura a una collaborazione e a un confronto con quei pochi centri di ricerca che hanno fatto della analisi della contrattazione collettiva una delle principali missioni della propria attività istituzionale
Ordinario di diritto del lavoro
Università di Modena e Reggio Emilia
*pubblicato anche su Contratti & Contrattazione Collettiva, 23 febbraio 2021