Torna subito alla mente la Salita al calvario di Peter Bruegel, quando il Professor Rodotà, nella Sala papale della Basilica di Assisi, in apertura della II edizione del “Cortile di Francesco” incentrata sul tema “UMANITA’”, (si) domanda dove essa sia finita.
Ritorna nel dettaglio di quel corpo femminile, sullo sfondo della tela, teso all’indietro nell’atto di chi trae a sé un altro corpo: è una moglie che vorrebbe impedire al marito, Simone di Cirene – non casualmente trattenuto con un rosario cinto attorno al collo – di sollevare il Cristo dal peso della sua croce, già verso il Golgota.
Un atto di violenta indifferenza, gravido di simbologia antropocentrica: uguale ma non identico a quello di chi sgambetta un padre e un figlio in fuga da un personale e collettivo Calvario, in quell’esodo migratorio immortalato nella celebre ripresa video del gesto osceno della reporter ungherese.
“Chi parla ancora in nome dell’umanità?” è la domanda di Rodotà, se la persona degrada ad oggetto monouso, la diseguaglianza diviene dato strutturale; se la povertà un’area nella quale si può essere impunemente ricacciati, e lo sfruttamento del lavoro negazione di un’esistenza libera e dignitosa.
Una parola, quella di “umanità”, rischiosamente in balìa della retorica, contenitore liquido capace di riempirsi e di svuotarsi: al punto che Proudhon vi intravedeva (col noto adagio) nulla più che l’inganno prodotto dal colonialismo francese a giustificazione di se stesso.
E che un secolo più avanti Carl Schmitt definirà “disonesta finzione”, manifestando apertamente il rifiuto di una qualunque dottrina a favore della fraternità e dell’eguaglianza tra uomini.
È un concerto di citazioni prese in prestito, l’incipit di un questo padre costituente “onorario”, che muta in imbarazzo cortese l’intento impossibile di non rendere lectiones. Perché la lectio è dietro ogni silenzio sospeso tra le frasi, incardinato tra le sillabe che compongono sostantivi di cui si conosce il peso, antichi e senza tempo. Al punto che sembra quasi di assistere per la prima volta ad un parto filologico, tanto si è diventati assuefatti all’esistenza dell’Umanità: consacrata nelle Carte nazionali, europee, ed internazionali, ricordata in ogni esternazione di sdegno istituzionale come risposta a tragedie (in)evitabili, infine consegnata al digitale (post-umano, per dirla con Norbert Wiener), ma mai realmente ponderata. Tanta è l’ovvietà con cui se ne registra l’assenza, nei “legami umani del mondo fluido” (Bauman), che quasi verrebbe da sbuffare alla sua pronuncia, concedersi alle trame dell’irrazionalità – la retorica del buonismo accademico è ancor più pericolosa della retorica della politica – alzarsi dalla poltrona, uscire dal Cortile. Eppure si rimane. Perché sembra finalmente intera quella parola, fatta di quella “sacertà” che Pasolini, negli Scritti corsari, consegnava alla vita più forte ancora di ogni principio democratico.
Alla finzione e all’inganno di questo concetto, in fondo, qualcosa può opporsi: una “Politica dell’umanità” (Martha Nussbaum), suggerisce il Professore, quale rifiuto della “politica del disgusto”, che si fondi su un assunto volutamente indimostrabile: che “il diritto ad avere diritti e il diritto di ogni uomo all’umanità dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa” (Hannah Arendt). Di portata fondamentale, perché “fondamento del vivere comune”: non dato naturalistico, e nemmeno quantitativo; non somma di tutti gli esseri viventi, ma elemento “straordinariamente qualitativo, che esiste solo ove ogni essere venga riconosciuto nella sua pienezza ed integrità”. E in continuo divenire. Come ben sapeva il Bergeret, che nella traduzione italiana del Canto Internazionale parlerà di “internazionale futura umanità”, destinando al concetto un profilo di “futuribilità” che negherebbe in radice ogni pretesa di sancirne confini assoluti. Ma se si volesse tentare ugualmente di darne una definizione, allora “l’Umanità sono gli altri” (in totale dissonanza con quanto afferma pessimisticamente Sartre, “l’inferno sono gli altri”): gli Altri portatori di “pari dignità sociale”, come recita l’articolo 3 della Carta costituzionale; non individuale, poiché “non basta riconoscere individualmente la dignità”. Un binomio indissolubile, quello tra umanità e dignità.
Se dignità va riconosciuta a tutti – continua il Professore – indistintamente, in quanto tutti, in società, sono umanamente pari, allora non esistono barriere giuridiche, fisiche o lessicali che possano negare una comune appartenenza all’Umanità: “lo scandalo” (E. Bianchi) del Buon Samaritano, consegnatoci dal Vangelo di Luca, ancora risplende in tutta la sua magnificenza, nella sua naturalità. Ma come ripensare l’amore per lo straniero? Come ripensarlo “oggi”? Che “troppi stranieri sembra che ci circondino”: affrontare il compito di amare sembra un’assurdità, se l’amore non è una cosa che si può insegnare – come insegnava Woytila. Non con altro, se non con la consapevolezza della sua impossibilità, ma almeno definendone i corrispondenti confini giuridici, ossia passando per la consacrazione costituzionale e normativa dei diritti civili: “anche nei confronti dello straniero”, come recitava il Codice Pisanelli del 1865, prima che il Codice fascista del ‘42 espungesse quel riconoscimento dall’ordinamento civile. Perché se “l’Unione pone la persona al centro della sua azione”, come recita l’articolo primo della Carta dei diritti fondamentali, allora il concetto di straniero “deve” perdere di significato. Delle due l’una: se esiste umanità, non esistono stranieri; se esistono stranieri, “siamo tutti stranieri”.
Ma “chi parla oggi in nome dell’Umanità?”. Può il principio maggioritario, espresso nella legge, essere sufficiente a porre al riparo l’umanità dall’abuso, dall’abominio, dalla scelte scellerate a suo danno? La risposta è nell’interrogativo. Nessun principio di maggioranza potrà consegnare nelle mani di un Potere, quand’anche democratico, il potere di decisioni irreversibili. Perché la maggioranza non copre “il tutto” dell’Umanità. Qui sta “l’inganno proudhoniano”: la parola umanità può essere plasmata fino a farne un crimine contro se stessa, per di più protetto dalla legalità e dalla legittimità dei processi decisionali ed esecutivi della politica. Il rischio, difatti, è che mentre “parliamo di umanità, si inneschino meccanismi di esclusione”, e che “essa sia sempre meno riconosciuta ai più e sempre più riconosciuta a un numero meno rilevante di persone”: fino al punto di rendere la povertà un “elemento di ulteriore discriminazione”, di disumanizzazione.
Sta alla politica stessa l’obbligo di porre un argine alle discriminazioni che sottraggono appartenenze a uno spazio comune, di impedire che “l’umanità si costruisca per sottrazione”. Un compito ineludibile, retto, tuttavia, dal fondamento dell’intangibilità assoluta della persona: perché proprio l’essere intangibile della persona, obbliga “a preoccuparsi di consentire che la persona possa svilupparsi liberamente”.
A ottocento anni dalla sua firma, rileva Rodotà, il “non metteremo né faremo mettere la mano su lui” sancito nella Magna Charta Libertatum (articolo 29), come rifiuto di ogni abuso reale, trova continuità nella previsione costituzionale del rispetto della persona umana come argine alla legge parlamentare, di cui all’articolo 32 della Costituzione italiana. E nei doveri di solidarietà di cui all’articolo 3 della stessa, dove così mirabilmente i padri costituenti hanno “plasmato in dovere lo sguardo sugl’altri”.
Una pausa del relatore, a ridosso dell’introduzione di un nuovo concetto: quello di solidarietà.
Poi di nuovo una domanda. “Siamo davvero convinti che questo dovere di solidarietà oggi sia adempiuto?”.
La mente procede a ritroso, e naviga il magma delle notizie di cui si ha conto – per ogni rete, in ogni istante – di questo nostro “tempo della paura”. Drammi che sfilano di fianco, in “cinguettii” frenetici e scarni: che non danno tempo di domandarsi dell’“uso umano degli esseri umani” (Norbert Wiener), dove sia la dignità in una morte per sfinimento, sotto il sole pugliese a tre euro l’ora; se davvero il numero legalizzi, come recitava Chaplin in “Monsieur Verdoux”, davanti ai morti annegati a migliaia, ai migranti schiavizzati a Rosarno, a Castelvolturno.
“Attieniti ai fatti, non lasciarti sviare da ciò che vorresti credere”, inchioda il razionalismo di Bertrand Russell.
Dov’è, infine, la solidarietà dei fatti? Esiste una declinazione pubblica della solidarietà o essa è destinata a rimanere privata? Sembra che non vi sia spazio per una solidarietà latamente politica, neppure nelle parole dell’Evangeli gaudium di Papa Francesco. La solidarietà rimane “una reazione spontanea di chi riconosce la destinazione universale dei beni come realtà anteriori alla proprietà”. Un atto umano personalissimo, mai del tutto istituzionale, un reazione dell’uomo privato, consapevole di come “deplorevolmente, persino i diritti umani possano essere utilizzati come una difesa esacerbata dei diritti individuali”. E prestato a una ricerca continua dell’umanizzazione degl’intenti nei confronti del prossimo.
La stessa che il Belli domandava al giudice di fronte al povero ladro, affinché discernesse se ebbe a rubare pe vvizzio o ppe bbisoggno: perché, al netto delle codificazioni e applicazioni legislative – mutevoli nel tempo e soggiogate al principio di maggioranze variabili – er punto forte è de vedejje er core.
In fin dei conti, non è concesso di fare nulla che sia “indifferente all’umanità delle persone”. Per quanto ci si voglia sottrarre al giudizio di solidarietà, l’azione e l’inazione – in tale sfera – equivalgono entrambi ad azione. Resta semplicemente da stabilire, in maniera del tutto personale, quanto copra la traiettoria delle azioni poste in essere verso l’uomo: ciascuno è nella posizione di ri-costruire “la pienezza del conferimento alla dignità e all’umanità, quale suo punto terminale”, quanto sottrarre ad essa, quanto destinargli.
Come era in potere della moglie di Simone di Cirene, nel dipinto di Bruegel, incline a frenare lo spirito solidale e umanitario del marito, per paura, per estraneità ai fatti e alle persone, per indifferenza.
Come era in potere della reporter ungherese, che ha deciso di sgambettare.
E’ vero: “dovremmo inclinare al pessimismo guardandoci intorno”. Ma poi ci accorgiamo che l’idea dell’Umanità non è andata perduta, che l’uomo di Cirene ha un volto e un’anima, e respira nelle controtendenze dei gesti scandalosi tra uomini: sollecitati dai “modi virulenti della società delle immagini”, questo è certo, e non da un moto continuo e indipendente; ma è la “strada obbligata” per il rifiuto categorico della “società dei conflitti”. In questo mondo sempre più interconnesso, se si vuole vivere insieme e non morire insieme, è necessario imparare una qualche forma di carità e di tolleranza.
Si accetti ancora questo lascito russelliano, conclude il Professore, che a qualcuno potrà non piacere: perché “le mura che in questo momento stiamo alzando, le dovremmo alzare intorno alle nostre case. Perché ci sarà fuori un’umanità che non si rassegna a non essere vista e a non essere considerata”.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
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