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Bollettino ADAPT 11 aprile 2022, n. 14
Il 6 aprile 2022, esattamente a distanza da un anno dalla stipula dell’ultima versione del Protocollo condiviso dal Governo e dalle Parti Sociali, queste ultime assieme ai Ministeri del Lavoro, della Salute e dello Sviluppo Economico si sono incontrati al fine di valutare l’eventuale aggiornamento del Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto in data 6 aprile 2021.
Se infatti fin dall’inizio della pandemia i protocolli c.d. “anti-contagio” hanno assunto una rilevanza strategica per la lotta alla diffusione del virus Sars-Cov-2 all’interno dei luoghi di lavoro anche non sanitari (per un approfondimento sul ruolo dei protocolli si veda G. Benincasa, M. Tiraboschi, Covid-19: le problematiche di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro tra protocolli condivisi e accordi aziendali, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica, Volume V – Le sfide per le relazioni industriali, ADAPT e-Book, 2020), sembra ora necessario domandarsi se, con la fine dello stato di emergenza, è obbligatorio continuare ad applicare i protocolli nei luoghi di lavoro oppure no (per una breve disamina sulle misure che rimangono in vigore a seguito dell’emanazione d.l. 24 marzo 2022, n. 24, si veda Benincasa G., Fine stato di emergenza al 31 marzo 2022: la sfida contro il Covid-19 tra nuove e (alcune) vecchie regole, Bollettino ADAPT 28 marzo 2022, n. 12).
Nello specifico, il Governo e le Parti Sociali, hanno sottolineato in primo luogo che la valenza dei protocolli per contrastare la diffusione del Covid-19 nei luoghi di lavoro non è mai stata vincolata allo stato di emergenza (concluso lo scorso 31 marzo 2022), affermando altresì l’opportunità del mantenimento dell’osservanza del Protocollo intersettoriale del 6 aprile 2021 al fine di tutelare imprese e lavoratori dato che, è bene ricordarlo, il termine dello stato di emergenza non coincide con la fine della pandemia e del contagio.
Tuttavia, il mero rispetto, da parte di una azienda, delle misure contenute all’interno del Protocollo condiviso del 6 aprile 2021 – per il quale verrà eventualmente valutato un aggiornamento alla fine del mese di aprile mediante un ulteriore incontro tra il Governo e le Parti Sociali – non pare essere sufficiente. Se infatti, da un lato, è necessario tenere in considerazione l’evoluzione della situazione sanitaria e il mutato contesto normativo di riferimento, dall’altro lato non possiamo trascurare, ancora oggi, la perdurante necessità di adattare le misure di sicurezza contenute nel protocollo nazionale allo specifico contesto organizzativo e produttivo di riferimento, mediante l’adozione di uno specifico protocollo aziendale.
Ed invero, per una effettiva tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, pare indispensabile non solo adottare e applicare correttamente i protocolli al livello aziendale – tenuto conto di quanto disciplinato al livello nazionale e, là dove presente, settoriale e territoriale – ma anche continuare ad aggiornarli mediante verifiche e controlli attuati dal Comitato di garanzia istituito, ai sensi dell’art. 13 del Protocollo nazionale, al livello aziendale (o territoriale).
Sebbene, dunque, non vi sia un vero e proprio obbligo ex lege che impone espressamente, alle aziende, l’applicazione del protocollo, è anche vero che lo stesso – come ribadito in particolar modo dai Ministeri della Salute e del Lavoro – non risulta soggetto ad una data di scadenza. A tal proposito merita anzi ricordare il ruolo strategico dei protocolli “anti-contagio” anche ai fini della esenzione da responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. Infatti, fermo restando la necessità, di applicare concretamente le misure previste all’interno del protocollo aziendale e progettate ad hoc per il contesto organizzativo di riferimento per il quale vengono adottate, dirimente appare ancora oggi l’art. 29-bis, decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, coordinato con la legge di conversione 5 giugno 2020, n. 40 (anch’essa non soggetta al termine dello stato di emergenza) che, ispirandosi al meccanismo di efficacia esimente dei Modelli di Organizzazione e Gestione ai sensi dell’art. 6, legge n. 231/2001, ha introdotto una presunzione di adempimento agli obblighi di cui all’art. 2087 c.c. per i datori di lavoro che applicano e rispettano concretamente il protocollo, stabilendo che “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Di particolare interesse risulta altresì l’apertura da parte del Governo che ha ipotizzato la permanenza di alcune regole poste alla base del Protocollo anche in una eventuale fase endemica della circolazione del Covid-19. A distanza di oltre due anni dall’inizio della pandemia e dall’emersione dei primi protocolli di sicurezza per contrastare la diffusione del virus all’interno dei singoli contesti di lavoro (si ricorda che il primo protocollo nazionale è stato sottoscritto in data 14 marzo 2020), sembra dunque emergere la volontà di individuare alcune regole permanenti a tutela di imprese e lavoratori. Tra le tante misure di sicurezza disciplinate all’interno del Protocollo nazionale (alcune delle quali risultano oggi obsolete e richiederebbero un aggiornamento rispetto all’evoluzione della situazione sanitaria) che potrebbero divenire permanenti, sebbene si tratti di una volontà ancora fumosa e fin troppo vaga per avanzare riflessioni di dettaglio, rileva indubbiamente la introduzione dei Comitati di verifica e controllo (al livello aziendale o territoriale) che vedono la partecipazione di lavoratori e sindacati in una materia – quella della salute e sicurezza – tradizionalmente affidata, quasi in via esclusiva, alla gestione del datore di lavoro. Nella stessa prospettiva, oltre alla opportunità di individuare procedure e misure di sicurezza che, tratte da questa esperienza, potrebbero essere applicate in situazioni analoghe a tutela della salute delle persone e della sicurezza dei luoghi di lavoro, non possiamo trascurare come, a causa della pandemia da Covid-19, sia stato messo in risalto un duplice ruolo del Medico Competente: da un lato, emergono le necessarie sinergie con il sistema di sanità pubblica, indispensabili al fine di tutelare la persona dai rischi presenti nel luogo di lavoro (sempre meno circoscritto e determinabile); dall’altro lato emerge la centralità di tale figura, nell’ambito della Sorveglianza Sanitaria, per tutelare i c.d. soggetti fragili che, a fronte di determinati rischi e specifiche condizioni, richiedono maggiore attenzione e misure di sicurezza ad hoc.
Tuttavia, in attesa dell’eventuale aggiornamento del Protocollo nazionale nonché dell’evoluzione della situazione sanitaria, ciò che al momento possiamo auspicare e che potrebbe rappresentare una delle principali sfide per il sistema prevenzionistico, è che i protocolli di sicurezza – strumenti che si sono rivelati indispensabile fin dall’inizio della pandemia da Covid-19 nonché improntati ad un principio di effettività – non divengano meri adempimenti formali e burocratici come, fin troppo spesso, vengono percepiti gli strumenti posti a presidio della salute e della sicurezza della persona che lavora.
Assegnista presso il Dipartimento di Economia Marco Biagi
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia