Il Governo ha ottenuto un’ampia delega dalla Camera per riformare le regole del mercato del lavoro, dalle norme sui licenziamenti individuali agli ammortizzatori sociali, dall’introduzione di un salario minimo alla semplificazione delle tipologie contrattuali. Ora si appresta a chiedere la stessa delega al Senato.
Ci si aspetterebbe da parte dell’opposizione, sia in Parlamento che nelle piazze, una richiesta pressante di chiarimenti da parte del governo su come intende esercitare questa delega, su cosa precisamente intende fare su materie molto importanti e delicate. Invece, gli oppositori si pronunciano solo su come meglio bloccare l’iter della riforma. Fino a ieri si parlava di un ricorso alla Corte Costituzionale per eccesso di delega. Ieri, Susanna Camusso ha addirittura minacciato il ricorso alla Corte Europea. Bene ricordare che l’incertezza sul quadro normativo è la peggiore nemica della creazione di lavoro. Tenere ancora più a lungo il nostro Paese in un limbo, in cui non si sa quali saranno le regole del mercato del lavoro, significa fare aumentare ulteriormente la disoccupazione perché i datori di lavoro, in queste condizioni, rimandano le assunzioni in attesa di maggiori certezze sul quadro normativo.
Inoltre, una Corte può al massimo ripristinare lo status quo e questo è tutt’altro che invidiabile. Il nostro mercato del lavoro è il peggiore d’Europa, da qualsiasi parte lo si guardi: durata della disoccupazione, copertura dei sussidi di disoccupazione, produttività, formazione sul posto di lavoro, povertà tra chi lavora e l’elenco potrebbe continuare. Lo status quo è, in altre parole, aberrante, semplicemente indifendibile. Certo non aiutano i continui attacchi del nostro Presidente del Consiglio al sindacato. Sembrano dettati dal tentativo di accreditarsi in Europa e in fasce di elettorato tradizionalmente ostili al sindacato. Non se ne sentiva proprio il bisogno dato che si stanno riformando le norme sui licenziamenti individuali, non quelle sui licenziamenti collettivi in cui il sindacato gioca un ruolo cruciale. Fatto sta che, invece di rendere partecipi gli italiani di un confronto anche acceso su come e cosa riformare concretamente per migliorare le cose, si cerca di arruolarli nelle piazze e nelle urne per uno scontro di potere all’interno del partito di maggioranza relativa.
Vediamo allora quali sono i punti chiave su cui si gioca la possibilità di riformare davvero il nostro mercato del lavoro, un’opportunità che non possiamo assolutamente permetterci di perdere nuovamente.
I decreti che seguiranno la legge delega dovranno ridurre l’enorme incertezza che oggi circonda i costi dei licenziamenti individuali in Italia. Significa semplificare le norme e ridurre la discrezionalità dei giudici. La minoranza del Pd ha ottenuto di creare un’asimmetria su come vengono trattati i licenziamenti economici e quelli disciplinari senza giusta causa. Per i primi non varrà mai il reintegro, per i secondi, in alcuni casi, sì. Come già discusso su queste colonne, questa asimmetria, per quanto confinata a casi molto specifici, rischia di aumentare il contenzioso, dunque l’incertezza. Il datore di lavoro vorrà sempre far valere ragioni economiche per il licenziamento mentre il lavoratore cercherà di dimostrare che le vere ragioni sono disciplinari. Nessuno ha interesse ad aumentare questa incertezza, tranne chi esercitala professione forense. Perché l’opposizione interna al Pd e lo stesso sindacato chiedono di trattare meglio chi presumibilmente può documentare di non essere gradito all’azienda perché si è poco impegnato sul posto di lavoro rispetto a chi invece “ha dato il massimo”, ma ha avuto la sfortuna di lavorare in un’impresa che, per colpe non sue, è entrata in crisi? Non sarebbe una battaglia molto più di sinistra chiedere al governo di introdurre nella legge delega il principio per cui il datore di lavoro paga un’indennità anche quando il licenziamento economico è legittimo? Oggi in Italia, a differenza che in molti altri paesi, non è così. Sarebbe un modo di tutelare di più chi è sfortunato e di tutelarlo maggiormente di chi ha presumibilmente qualche responsabilità nel deludente andamento dell’azienda presso cui lavora.
Un’altra battaglia che la sinistra non sembra voler fare riguarda il salario minimo. Ce ne sarebbe bisogno per ridurre il numero dei cosiddetti working poor balzati negli ultimi anni al 16 per cento della forza lavoro. La legge delega è molto reticente a riguardo, prevedendo sì «un compenso orario. minimo», ma solo per i settori dove non c’è contrattazione collettiva. Ora, sulla carta tutto è coperto dalla contrattazione collettiva a meno che si sia nel settore informale. Quindi il salario minimo dovrebbe entrare in vigore solo dove nessuna legge viene applicata. Eppure, c’è un 13 per cento di lavoratori regolari che percepisce salari inferiori ai minimi contrattuali, con punte del 30 per cento in agricoltura e nelle costruzioni. Questi lavoratori senza alcun potere contrattuale continueranno a vedere il proprio salario orario avvicinarsi di molto allo zero. Perché la minoranza del Pd non chiede al governo di introdurre un salario minimo per tutti i lavoratori?
C’è poi la questione della semplificazione delle tipologie contrattuali. Renzi continua a sostenere che abolirà i contratti a progetto e i co.co.co. Ma come intende procedere? Cosa succederà a questi lavoratori? Come si pensa di ridurre il rischio che finiscano per alimentare le fila dei disoccupati? C’è un modo per scoraggiare l’abuso di questefigure contrattuali senza magari eliminarle del tutto?
E ancora, cosa si vuol fare in concreto per ampliare la copertura degli ammortizzatori sociali ai lavoratori che hanno carriere discontinue? Se si vuole davvero estendere il diritto a essere assistito in caso di perdita di lavoro anche a chi ha versato contributi per soli tre mesi e a chi lavora nel parasubordinato, non bisogna forse mettere sul piatto più risorse di quelle oggi previste dalla Legge di Stabilità?
Perché nessuno pone queste domande al governo? Perché non chiede parimenti come intende assicurarsi che il diritto al congedo di maternità venga davvero esteso a tutte le lavoratrici, autoctone e immigrate, che lavorano nel nostro paese?
Sono, immaginiamo, questi i quesiti che interessano milioni di italiani. Ma non è certo di questo che si parla. L’altra faccia della medaglia delle felpe rosse della Fiom sotto la giacca è un assegno in bianco. Quello che sta concedendo al governo chi dichiara il proprio dissenso sul Jobs Act, evitando di incalzare l’esecutivo su queste scelte fondamentali per il futuro del lavoro in Italia.