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Bollettino ADAPT 16 marzo 2020, n. 11
Rispondere alla domanda “come cambierà il lavoro con il Coronavirus” non è facile. In fondo non è neanche possibile farlo ora. Quello che è possibile fare è chiedersi come sta cambiando il nostro rapporto con il lavoro e come sta cambiando il ruolo che il lavoro ha nella nostra vita. Anche in questo caso non c’è una risposta e un tentativo di sviscerare il tema è guardare alla propria esperienza personale di questi giorni. Una esperienza per certi versi unica, ma che per altri ci sta unendo più di quanto immaginavamo. Intanto il lavoro prende un posto nuovo nella vita.
Da un lato il dramma a cui siamo messi di fronte in questi giorni mette in secondo piano tante preoccupazioni quotidiane legate all’esperienza lavorativa facendo emergere una scala di priorità “naturale” di cui ci eravamo dimenticati. Può essere che a livello macro non si colga questa dinamica, ma nell’intimo di ciascuna persona è difficile immaginare che non sia così. Non che il lavoro poi a casa manchi, pensiamo a chi deve accudire anziani di fronte al venire a meno di supporto esterno, o alle famiglie con figli che, senza scuole, si trovano a lavorare con i figli tutto il giorno e non solo al weekend. Perché anche questo è lavoro, e forse questa è una buona occasione per (ri)scoprirlo.
Il lavoro di cura, l’azione quotidiana per occuparsi delle persone a noi affidate è lavoro, anche se spesso è considerato altro perché manca lo stipendio, gli orari, il capo (che poi ci sono tutte queste cose, in forme diverse). Allo stesso tempo però la solitudine che caratterizza le giornate di molti, magari distanti da casa, magari con gli affetti lontani e senza la presenza (a volte amata a volte odiata ma pur sempre presenza) dei colleghi fa riscoprire il posto che l’altro ha nella vita. E così si scopre che il lavoro da casa, da soli di fronte a uno schermo, spesso tanto esaltato come modalità di assoluta liberazione dei vincoli del lavoro ci lascia incompleti, come se mancasse qualcosa. Sia chiaro, il lavoro da remoto oggi è fondamentale per evitare una ulteriore diffusione di contagio, ma potrebbe essere più simile a una amara medicina necessaria piuttosto che il venir meno di un giogo gravoso. Ci si ritrova da soli a gestire tempi e attività, ma ci si ritrova anche a organizzare call e riunioni virtuali, anche più del dovuto, riscoprendo una mancanza di quella componente relazionale che è centrale nel lavoro, anche se spesso passa in secondo piano. Sono aspetti che segnano, in positivo e in negativo, e che le settimane che siamo chiamati a passare da soli faranno emergere probabilmente in modi impensati, come solo una situazione imprevedibile sa generare.
Ma ci sono anche molti lavoratori che vivono tutt’altro ordine di pensieri e problematiche. In primis chi vive tutta la frustrazione di doversi quotidianamente recare al lavoro in città deserte pur sapendo benissimo che ha a disposizione tutte le tecnologie per lavorare da casa ma l’azienda, per ragioni spesso più culturali che organizzative, non lo consente. E purtroppo anche dopo le ultime disposizioni di chiusura degli esercizi commerciali molte realtà (uffici, studi professionali, aziende con un grande numero di impiegati) continuano a richiedere la presenza fisica. Generando appunto una frustrazione che, senza che forse i datori di lavoro si rendano conto, è capace nella situazione attuale in cui, come detto, le priorità si riordinano, di scavare un solco che difficilmente potrà tornare normale al termine dell’emergenza. Ci sono poi le persone che devono recarsi al lavoro perché sanno bene che la loro presenza è fondamentale. Ma anche qui la coscienza può essere molto diversa a seconda dei casi. I lavoratori impegnati sulle linee di produzione o in imprese che offrono servizi che potrebbero essere ritenuti “non essenziali” chiedono di essere lasciati a casa, sentono il lavoro come un peso che tocca essere fatto per poter portare a casa uno stipendio, e magari temono ripercussioni se esagerano nelle richieste. Anche qui il lavoro prende il suo posto, un posto che consente dignità, crescita personale, relazioni. Ma che a volte di fronte al dramma, alla paura di contagiarsi, di contagiare le persone a casa al ritorno, ci pare possa essere messo in secondo piano. Soprattutto se è un lavoro in cui si fatica a vedere il nesso tra quello che si fa e un processo e un quadro più ampio, in cui già è difficile quindi coglierne quindi il senso, quell’aspetto centrale che, come diceva Simone Weil, rende il lavoro un valore. Si pone quindi una urgenza di chiarezza tra imprese e lavoratori, chiarezza nelle ragioni per cui si ritiene necessaria la non chiusura degli impianti, chiarezza nella presenza e nell’obbligo di utilizzo di dispositivi e norme di sicurezza. Senza questa dimensione comunitaria del lavoro in fabbrica cresceranno sempre più, e in pochissimo tempo, proteste e assenteismo. Poi ci sono quei lavoratori, ai quali siamo oggi più che mai tutti essere grati, che con la loro fatica fisica e ancor più psicologica, instancabilmente rendono possibile vedere, da lontano, la fine del tunnel in cui siamo entrati. Sono i medici e tutto il personale sanitario, ma anche tutti coloro che lavorano nei servizi essenziali e ci consentono di andare avanti nella condizione di quarantena in cui tutti siamo immersi. Difficile per loro forse fermarsi e pensare, non hanno il lusso di potersi permettere queste riflessioni che probabilmente sembrerebbero loro astratte. Ma anche per loro, nei fatti prima che nella consapevolezza (forse), l’altro è il vero motore del lavoro.
Non sappiamo quindi come potrà essere il lavoro dopo il Coronavirus, ma è molto probabile che sarà diverso. Diverso per ciascuno e quindi, in una forma che non conosciamo, diverso per tutti. E non parliamo per forza delle forme, che potranno essere molto simili, ma della sostanza. E forse che proprio queste nuove consapevolezze potranno generare un nuovo modo di lavorare per tutti. Quello che è certo invece è che senza misure economiche drastiche e immediate di lavoro ne vedremo molto poco.
Presidente Fondazione ADAPT
*pubblicato anche su Il Foglio, 14 marzo 2020