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Bollettino ADAPT 9 maggio 2022, n. 18
Se è fuor di dubbio che la pandemia abbia profondamente cambiato il mondo del lavoro nel periodo emergenziale, è interessante analizzare cosa rimane, adesso che le misure precauzionali lentamente vanno allentandosi, di quella modalità organizzativa del lavoro fino ad allora poco utilizzata, e tornata oggi alla ribalta grazie anche all’attenzione che il legislatore ha dovuto con urgenza riservarle per colmare vecchie lacune e vuoti normativi: il lavoro a distanza.
Si ritiene utile, pertanto, offrire la prospettiva di un paese come la Spagna che durante la pandemia ha approvato il Real Decreto-ley 28/2020, de 22 de septiembre, de trabajo a distancia e che risulta oggi, di conseguenza, tra gli ordinamenti che più compiutamente hanno elaborato una disciplina per il lavoro a distanza (sul punto vedi L. Serrani, La nuova legge sul lavoro a distanza in Spagna, in Bollettino ADAPT 28 settembre 2020, n. 35).
Così, stando ai dati forniti dalla recente pubblicazione Radiografía del trabajo a distancia. Preferencias y posibilidades de la sociedad española, elaborata dall’Observatorio Nacional de Tecnología y Sociedad (ONTSI) del Ministerio de Asuntos Económicos y Transformación Digital, emerge un quadro variegato di come il telelavoro si sia assestato in funzione delle diverse variabili.
Rispetto al periodo emergenziale, in cui l’imposizione del confinamento stretto aveva addirittura determinato il triplicarsi della percentuale di persone impegnate a svolgere abitualmente (vale a dire, per più della metà delle giornate lavorative) il proprio lavoro nella modalità a distanza (secondo le statistiche offerte dall’ONTSI in Datos de Teletrabajo, Segundo trimestre de 2021, Tercer trimestre de 2021 y Cuarto trimestre de 2021, si era passati dal 4,8% degli occupati nel 2019 pari a 951.800 di persone, al 16,2% nel secondo trimestre del 2020 pari a 3.015.200 di persone), con l’allentamento delle misure di distanziamento si è assistito ad una riduzione significativa del telelavoro sino a collocarsi al 9,4% nel secondo trimestre del 2021 (1.849.600 di persone), all’8% nel terzo trimestre e al 7,9% nel quarto trimestre (1.586.700 di persone), dati che, comunque, rappresentano il doppio di quelli antecedenti al periodo pandemico.
Stesso trend per il telelavoro occasionale (con cui si intende il lavoro a distanza svolto per una quantità di tempo inferiore alla metà delle giornate lavorative), che ha visto in un anno (dal secondo trimestre del 2020 allo stesso periodo del 2021) un incremento dal 2,9% (539.000 persone) al 5,3% degli occupati (1.051.400 di persone). In prospettiva di genere, si rileva un maggior ricorso da parte delle donne (9%) al telelavoro abituale rispetto agli uomini (7%), mentre l’opposto avviene nel caso del telelavoro occasionale (5.8% degli uomini rispetto al 5,6% delle donne). In funzione delle fasce d’età, le statistiche mostrano come il telelavoro abituale sia più comune tra le persone giovani (8,6% nella lascia 35-44 anni e 8,2% nella fascia 25-34 anni), mentre il telelavoro occasionale risulti maggiormente presente nelle fasce di età tra i 45 e i 54 anni (6,5%) e dai 55 anni in su (6,4%).
La percezione che la popolazione lavorativa ha del telelavoro può dirsi favorevole, sebbene con alcune sfumature. All’inizio del 2021, il 52% della popolazione affermava che fosse positivo per la società, il 62% che lo fosse per le aziende e il 59% che lo fosse per la vita familiare. Meno della metà, tuttavia, pensava che fosse positivo per i lavoratori stessi. Al contrario, il 9% pensava che fosse dannoso per le aziende, il 19% che lo fosse per i lavoratori e il 23% che lo fosse per la società nel suo insieme. Dall’inchiesta emergeva, inoltre, quali fossero, per l’opinione pubblica, gli aspetti positivi del telelavoro: a livello di società, il fatto che consentisse di ridurre il traffico (80%) e favorisse la conciliazione tra vita personale e familiare (75%); pensando ai lavoratori, il fatto che permettesse di evitare gli spostamenti (77%) e favorisse la conciliazione vita-lavoro (76%); mentre sul versante delle aziende, l’argomento principale era il fatto che consentisse di ridurre i costi (66%). E quali, invece, gli aspetti negativi: rischio di isolamento (80%); danno ai settori del commercio, dell’industria del tempo libero, dei trasporti; rischio di lavorare più ore di quelle concordate (63%) e maggiore difficoltà in punto di avanzamento di carriera (40%).
Se, dunque, è indubbio che il telelavoro sia ormai entrato a far parte della quotidianità di una percentuale della popolazione lavorativa spagnola più ampia rispetto al periodo pre-pandemico, la realtà, tuttavia, è che la maggior parte delle persone occupate non ha la possibilità di lavorare a distanza, in ragione del tipo di lavoro svolto. Due persone su tre (65%) sono impiegate in attività che non consentono il ricorso al telelavoro, in settori in cui la presenza sul luogo di lavoro risulta essenziale per lo svolgimento dell’attività economica, che sia per la produzione di beni materiali o per la necessità di un rapporto diretto con il cliente. Sono questi, ad esempio, i settori dell’agricoltura (6,6%), dell’industria alberghiera (7%), dell’edilizia (20%), le cui peculiari attività ben poco si prestano ad essere svolte da remoto, rispetto a quanto avviene, ad esempio, nei settori tecnologico digitale (87,8%), immobiliare (87,2%), finanza e assicurazioni (86,7%) o delle professioni tecnico-scientifiche (80,7%). Si rileva, inoltre, come le grandi città offrano possibilità maggiori di telelavorare: nelle città di otre 100.000 abitanti e capitali di provincia il 44,5% degli occupati ha la possibilità di svolgere la propria attività, in maniera totale o parziale, a distanza, in quelle da 20.000 a 100.000 abitanti un 30,5%, mentre solo un 26,4% nel caso di città con meno di 20.000 abitanti.
Si è rilevato, altresì, come esista un collegamento tra la retribuzione percepita e la possibilità di optare per il telelavoro: quanto più il salario risulti elevato, tanto più il lavoratore potrà ricorrere al lavoro a distanza. Difatti, la possibilità di telelavorare risulta maggiore per quelle persone la cui retribuzione superi la media nazionale, vale a dire, i 1.600 euro mensili e continui a crescere a mano a mano che si salga nella scala degli stipendi, sino a raggiungere il 60,6% di persone che potrebbero scegliere di lavorare a distanza nella fascia di coloro che guadagnano dai 3.000 euro in su. Viceversa, al di sotto dei 1.600 euro mensili si riducono le possibilità di avere un impiego che consenta di lavorare da casa, il che si giustifica con il fatto che, generalmente, salari più bassi vengono percepiti in quei settori in cui la presenza sul luogo di lavoro risulti essenziale per il regolare svolgimento dell’attività economica.
La possibilità di ricorrere al telelavoro può dipendere anche dal livello di studi, giacché possedere un livello di istruzione universitaria o ancora superiore rappresenta un punto a favore per l’ottenimento di un impiego che consenta di lavorare a distanza. Dai dati è emerso che il titolo di dottore di ricerca offra tale possibilità nell’87,3% dei casi, e il titolo universitario nel 54,4% dei casi, mentre coloro il cui livello di istruzione si sia fermato alla scuola secondaria, hanno la possibilità di telelavorare soltanto nel 5,8% dei casi.
Non tutti coloro che hanno la possibilità di telelavorare, tuttavia, ricorrono a tale modalità organizzativa con la stessa frequenza. È stato rilevato, difatti, un gap di intensità (con riferimento, cioè, al numero di giornate lavorate a distanza) tra i due estremi di chi può lavorare da casa tutti i giorni e chi può farlo per non più di un giorno e mezzo alla settimana. Su dieci persone che godono dell’opzione di svolgere interamente il proprio lavoro da remoto, quasi sette usufruiscono di tale possibilità ogni giorno o quasi tutti i giorni. Due dei restanti telelavorano non più di due giorni alla settimana.
Ma chi ne ha la possibilità, telelavora davvero quanto vorrebbe? Dall’inchiesta è emerso che la maggioranza (33,3%) vorrebbe lavorare a distanza tutti i giorni; il 31,5% tutti i giorni salvo rientri occasionali; il 13,5% quattro giorni alla settimana; il 10,8% tre giorni alla settimana; il 2,5% un giorno e mezzo alla settimana; lo 0,4% meno di un giorno e mezzo alla settimana e solo lo 0,1% vorrebbe lavorare in presenza tutti i giorni.
La preferenza di lavorare da casa più giorni è chiaramente relazionata con la necessità di cura dei familiari a carico, ma può dipendere anche dallo stato civile, giacché, stando a quanto emerso dall’inchiesta, risulta che le persone vedove, non sposate o divorziate, potendo scegliere, lavorerebbero di più a distanza, mentre chi condivide l’abitazione con il proprio partner non sempre preferisce lavorare di più da casa. Quanto nello specifico ai divorziati, tuttavia, certo è che la scelta di telelavorare in buona parte dipenda da se si tratti di un uomo o di una donna: nella maggior parte dei casi, infatti, sono le donne divorziate ad avere i figli a carico in casa, mentre gli uomini divorziati per lo più vivono da soli, il che conferma quanto la cura dei figli rappresenti un fattore chiave nella scelta di lavorare più o meno giorni da casa.
Quel che emerge, in conclusione, è che sebbene la possibilità di telelavorare sia raddoppiata rispetto al periodo precedente alla pandemia, tuttavia la maggior parte delle occupazioni non risulta compatibile con tale modalità di organizzazione del lavoro a distanza. E anche ove il telelavoro rappresenti un’opzione percorribile, vi sono molteplici fattori che incidono sulla possibilità o meno di farvi ricorso, quali ad esempio il settore in cui si colloca l’attività, il livello di istruzione, la fascia di retribuzione, le dimensioni della città in cui si vive, il tipo di famiglia cui si appartenga con i relativi carichi che ne derivano, lo stato civile.
Ricercatrice ADAPT
Responsabile Area Ispanofona
@LaviniaSerrani