L’ultimo libro di Nicola D’Amico “Storia della formazione professionale” ha riaperto il dibattito su un tema a lungo bistrattato ma considerato altamente strategico in Europa. Perché è importante riscoprire la storia della formazione professionale e come mai è stata, ed è, così marginalizzata? È responsabilità della sola politica?
Il libro di Nicola D’amico è un chiaro indicatore della ripresa di interesse verso la formazione professionale. L’Europa, ormai da molti anni, ha posto al centro delle strategia economica l’occupabilità dei giovani, l’Italia ha tuttavia dovuto impattare così pesantemente in questa crisi per cominciare a superare stereotipi ormai consunti che ne hanno fatto per decenni un paese in cui apprendimento e lavoro non hanno saputo incontrarsi, dove è stato a lungo prevalente l’indirizzo umanistico liceale rispetto alla filiera tecnico professionale, dove, per quasi totale mancanza di adeguate forme di orientamento professionale, i percorsi di istruzione sono stati scelti senza che fossero messi in correlazione con la vita professionale futura. La formazione professionale è stata una eccezione a queste categorie classiche della scuola; tuttavia per la sua troppo modesta dimensione, non ha potuto incidere nel più generale assetto delle politiche formative, politiche che di fatto hanno assecondato una deriva anche nei comportamenti e nelle scelte dei giovani e delle famiglie spesso guidati da una concezione residuale del lavoro manuale e professionale.
La politica ha grandi responsabilità perché – come bene illustra D’Amico nella sua storia della formazione professionale – abbiamo assistito specialmente in questi ultimi due decenni ad un progressivo arretramento qualitativo della formazione professionale, imprigionata dentro una frammentazione localistica sia per modelli che per programmi. Anche quando – a livello nazionale – ha assunto nuovi caratteri ordinamentali tali da farne un percorso per il conseguimento dell’obbligo di istruzione dentro ad un organico rapporto con l’intero sistema educativo nazionale, le Regioni non sono state al passo con il nuovo disegno di rilancio della formazione professionale tanto che oggi, solo in un terzo delle Regioni italiane si può dire che esista un sistema organico, mentre, soprattutto al Sud, si è determinata una mancanza di esigibilità dei diritti formativi.
In questa fase di tentativi di riforma costituzionale ci potrebbe essere un intervento anche sulla formazione professionale. I rumors che vedrebbero lo spostamento dalla competenza regionale alla competenza statale sono fondati? Quali sarebbero i pro e i contro di un passaggio di competenze dalle Regioni allo Stato? E in questa prospettiva quale configurazione potrebbero prendere gli IeFP?
Stiamo parlando di un dibattito e di un percorso parlamentare ancora in essere che ci consente di tratteggiare solo a grandi linee un possibile scenario futuro. La prima sfida sta nel legare la formazione professionale alle politiche attive di cui deve essere parte integrante. Tutto l’assetto delle politiche attive risente in Italia delle disfunzioni dovute a eccessi di frammentazione localistica e da una deleteria scissione tra gli interventi di sostegno al reddito e le azioni di presa in carico e di attivazione delle persone disoccupate o in cerca di occupazione. E’ evidente che nel momento in cui si allargano le tutele e si rende universale la protezione sociale (NASpI, ASDI e DIS-COL) si debba contestualmente realizzare una rete efficiente e diffusa dei servizi per il lavoro. Ma deve essere chiaro che per dare efficienza ai servizi non basta ricondurre ad una gestione unica nazionale ciò che oggi è polverizzato nei territori; serve anche saper coordinare più attori che, con competenze differenti, svolgono funzioni utili nei diversi e specifici bacini di intervento. In questa prospettiva alla formazione professionale non si deve chiedere unicamente di fare bene il suo mestiere nella IeFP (Istruzione e Formazione Professionale), ma anche di mettere in campo un’offerta formativa flessibile e immediatamente fruibile mirata ad un rapido ricollocamento delle persone disoccupate ed inoltre di dotarsi di una gamma di servizi di placement di cui possano beneficiare primariamente tutti i giovani in uscita dai percorsi formativi. Prima ancora che litigare sul chi fa che cosa, tra Stato e Regioni è indispensabile discutere delle scelte per dare efficienza al mercato del lavoro e per coordinare adeguatamente una molteplicità degli attori che saranno chiamati a concorrere a costruire questo nuovo assetto.
Dal 1999 al 2004, è stato presidente di ENAIP, l’Ente di formazione professionale promosso dalle ACLI e ha mostrato verso questo tema una grande sensibilità e attenzione. Qual è il ruolo dei corpi intermedi verso la formazione professionale e come renderlo più efficace? Come possono rispondere alle necessità formative dei territori, specie al Sud?
Dalle prime esperienze di formazione ed animazione dei giovani avviate da San Giovanni Bosco a Torino a metà del XIX fino alla formazione professionale del dopoguerra, i caratteri distintivi sono riconducibili ad un forte impegno sociale di organizzazioni senza fine di lucro, spesso di ispirazione cristiana, che hanno fatto della propria esistenza una missione educativa verso i giovani specialmente quelli più emarginati. Negli anni di diretta responsabilità nell’Ente formativo delle ACLI, ho avuto modo di conoscere a fondo le caratteristiche di tutti questi mondi e, proprio in quel periodo, dal positivo convergere di esperienze, si è dato vita a FORMA, l’organizzazione che raccoglie e coordina la maggior parte degli Enti impegnati su questo versante. Ma la vitalità dei corpi intermedi che è stata l’ossatura della formazione professionale in Italia, si è scontrata con una crescente assenza di programmazione e di organizzazione delle istituzioni locali. Nonostante le politiche nazionali abbiano ancorato sempre più la formazione professionale ai diritti formativi, tutto questo in non poche Regioni non è stato recepito; basti pensare che in molti territori l’offerta formativa è inferiore alle domande di iscrizione degli allievi e delle famiglie; oppure che manca in alcuni casi la continuità del ciclo formativo (i giovani si iscrivono ai primi anni ma non sanno se ci saranno quelli successivi). Insomma quei percorsi che avrebbero dovuto affiancare il lavoro all’apprendimento, che potevano contrastare con efficacia la dispersione scolastica, che potevano ridurre notevolmente quella troppo lunga transizione tra termine degli studi e inserimento nel mercato del lavoro, hanno subito in questo ultimo decennio pesanti condizionamenti e hanno dovuto cimentarsi con enormi difficoltà gestionali. Siamo quindi ad una svolta che dovrà rappresentare il rilancio della formazione professionale soprattutto nel Mezzogiorno: questa sfida non ammette litigi istituzionali tra Stato e Regioni, ma richiede responsabilità e cooperazione.
La formazione professionale è spesso considerata di “Serie C” rispetto all’istruzione tecnica e agli inarrivabili licei. Tuttavia, nonostante una reputazione così bassa, i giovani che si formano in questi percorsi riescono a inserirsi agevolmente nel mercato del lavoro. Perché un giovane oggi dovrebbe scegliere questo percorso e quali sono le azioni del Governo per riportare in auge la formazione professionale nel Paese?
Se sommiamo le incertezze che contraddistinguono la formazione professionale nei territori ad una diffusa diffidenza sociale verso il lavoro manuale, non ci possiamo sorprendere del diffuso sentimento che percepisce la formazione professionale come l’anello debole del sistema educativo italiano. Tuttavia la crisi sta facendo giustizia di illusioni e luoghi comuni. Ecco allora che famiglie ed allievi oggi riscoprono la formazione professionale perché sa assicurare ai giovani un più rapido inserimento lavorativo (60% nei sei mesi successivi all’uscita dai percorsi di qualifica); ecco riemergere l’apprezzamento verso la metodologia di apprendimento laboratoriale che riesce a mantenere in un percorso di studi anche quei giovani che si sentono poco portati all’apprendimento astratto sui libri; ed ecco che si riscopre come nei decenni passati, la metà dei giovani qualificati dopo un periodo di lavoro dipendente si è affermato costituendo nuove piccole imprese di successo. Il Governo non intende restare estraneo osservatore dei processi in atto, ma con le proprie politiche intende ridare un nuovo baricentro al sistema di istruzione e formazione in Italia.
Tra le modifiche introdotte dal JobsAct vi è una nuova disciplina dell’apprendistato che riguarda soprattutto quello di primo e terzo livello. Da molti anni ormai l’apprendistato è oggetto di modifiche e tentativi di riforme che però non lo hanno reso appetibile alle imprese. Quali sono le novità di questo nuovo testo e come pensa che può concorrere a realizzare un verso sistema duale “all’italiana”? Come sarà la formazione professionale con il nuovo apprendistato?
Misure incisive per agevolare le imprese nei contratti di apprendistato di primo livello e di alta formazione sono un aspetto importante del provvedimento assunto dal Consiglio dei Ministri lo scorso 20 febbraio. Esse agiscono in due direzioni: la prima volta ad abbattere di circa il 50% il costo del lavoro tra l’apprendistato di mestiere e quelli più propriamente formativi; la seconda indirizzata a sottrarre all’impresa quel carico di oneri burocratici e organizzativi che hanno inciso così negativamente nei precedenti istituti portando queste due forme di apprendistato a numeri assolutamente irrilevanti. Tuttavia la vera novità del nuovo apprendistato è nella scommessa di costruire anche in Italia un sistema duale di formazione. L’impresa in tal modo è chiamata a diventare un partner strutturale dell’istituzione formativa e concorrere al conseguimento dei titoli di studio ordinamentali attraverso percorsi di apprendimento ove la metà dell’orario di formazione viene svolto dentro l’azienda. È infatti il protocollo sottoscritto tra impresa e istituzione formativa l’atto costitutivo di ogni rapporto di apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione professionale e di quello di alta formazione e ricerca.
Con questo nuovo percorso formativo, che sarà rivolto alla filiera della IeFP e ai quarti e quinti anni degli Istituti Tecnici, si intende creare un percorso verticale tutto spendibile nel sistema duale di apprendimento, in modo che sia possibile conseguire tutti i titoli della filiera: dal livello più basso della qualifica a quello terziario con il diploma tecnico superiore, la laurea breve e magistrale, fino ai dottorati di ricerca e al praticantato ordinistico. Con il nuovo apprendistato duale si pone dunque il primo pilastro del nuovo sistema duale che dovrà essere completato con la revisione e razionalizzazione degli incentivi previsti in uno dei prossimi decreti legislativi del Jobs Act
Che idea si è fatto dopo quasi un anno di avvio del Piano Garanzia Giovani in Italia? Quali sono gli aspetti più critici e quali quelli che invece la soddisfano? Si può dire già da ora che è stata un’occasione mancata o ci sono degli elementi da salvare?
I dati, aggiornati al 5 marzo u.s., ci dicono che le adesioni al programma hanno raggiunto i 441.480 mila giovani iscritti. Si tratta di un numero rilevante di giovani che ha fatto la scelta di uscire dalla grigia condizione di Neet per aderire ad un nuovo percorso accompagnato verso misure di inserimento attivo nel mercato del lavoro. Non sono ancora numeri completamente soddisfacenti, vista l’amplissima platea di giovani a cui dare ancora risposta, ma sono sicuramente un messaggio chiaro: i servizi per il lavoro possono prendere in carico i giovani ed accompagnarli uscendo da una solitudine esistenziale che fino ad ora ha costretto ogni singola persona a doversi arrangiare di fronte alla sfida della ricerca di un lavoro.
Come per le formazione e per i servizi, le diverse Regioni stanno dando risposte fortemente differenziate nei territori. Solo chi aveva avuto cura di creare stabili reti integrate tra formazione e servizi per il lavoro, sta oggi raggiungendo i migliori risultati. A riprova della inderogabile necessità di dare un assetto omogeneo ed efficiente alle politiche attive in Italia. Dall’inizio dell’anno, si è entrati nella fase “due” del programma, con una rimodulazione delle azioni che richiedono di essere più fortemente implementate. Si è messo mano agli incentivi per rendere possibile alle imprese l’utilizzo del buono occupazione in tutte le tipologie di apprendistato. Parimenti bisogna agire in modo più incisivo sulla platea dei Neet, che è composta da una grande area grigia con difficoltà ad essere intercettata, proprio perché dispersa e senza appartenenze né al contesto scolastico e formativo, né a quello lavorativo. Bisogna conseguentemente lavorare anche sui flussi in uscita dai percorsi della secondaria superiore e dalle università, ponendo un argine a quanti rischiano nel giro di pochi mesi dal termine degli studi di diventare Neet. Si potrà in tal modo conseguire un più robusto allargamento della platea dei destinatari, partendo dalla elementare ed ovvia considerazione che, se si vogliono intercettare i giovani, bisogna attivare le strutture che quotidianamente lavorano con loro: in primis scuole e centri di formazione professionale.
Jobs Act e Buona Scuola sono riforme che tentano di riallacciare il collegamento tra formazione e lavoro che da troppo tempo manca in Italia. Pensa che saranno sufficienti per riportare su livelli accettabili il tasso di disoccupazione giovanile e il numero dei Neet oppure la trasformazione del lavoro è così forte da non permettere previsioni attendibili?
L’occupazione non si crea per decreto. È impegno del Governo dare un assetto semplificato ai contratti di lavoro in particolare a quelli che hanno una valenza più coerente con un più generale riordino del mercato del lavoro e introdurre un forte abbattimento dei costi per le imprese nel contratto a tutele crescenti e nell’apprendistato. Tuttavia è l’intera società che deve reagire: per dar vita ad una vera ripresa ci vuole una forte fiducia nel futuro ed un forte investimento sull’Italia, altrimenti non ripartiranno gli investimenti e ci sarà una crescita stantia e senza occupazione. Per favorire la ripresa, il Governo sta assicurando non solo gli interventi sui contratti di lavoro, ma anche sulla riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione. La nascita di una filiera formativa con caratteristiche duali, l’estensione dell’alternanza scuola lavoro a tutti i percorsi tecnici e professionali sono le iniziative in cantiere per contrastare l’elevatissima disoccupazione dei giovani che in buona misura è figlia delle asimmetrie dell’apprendimento scolastico rispetto alle competenze richieste dal mercato del lavoro. Se tutto questo verrà corredato da un coerente percorso di riorganizzazione del Titolo V della Costituzione, si potrà assicurare un effettivo impulso sia allo sviluppo che ad una migliore qualificazione del capitale umano del Paese.
* Luigi Bobba, Sottosegretario di Stato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Giornalista pubblicista e docente, ha pubblicato diversi libri e articoli sui temi del lavoro, del welfare e della formazione. Ha ricoperto il ruolo di Presidente dell’Istituto Ricerche Educative e Formative dal 1997 al 2007. Dal 1994 è stato vicepresidente nazionale delle Acli e Presidente dell’Enaip. Dal 2002 al 2005 è stato consigliere del Cnel. Eletto al Senato nel 2006 e alla Camera dei Deputati nel 2008 e nel 2013. Dal 28 febbraio 2014 è Sottosegretario di Stato.
Alfonso Balsamo
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@Alfonso_Balsamo
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Come rilanciare la formazione professionale in Italia. A tu per tu con Luigi Bobba