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Bollettino ADAPT 24 ottobre 2022, n. 36
La nomina di Marina Calderone al vertice del Ministero del lavoro ci induce a qualche riflessione sul futuro delle politiche sociali e del lavoro nel nostro Paese.
Non tanto e non solo per la scelta di una solida guida tecnica al dicastero di via Veneto.
Lasciamo volentieri ai politologi il compito di valutare l’attendibilità di una narrazione semi-ufficiale che ci pare davvero molto debole: quella secondo cui nessun politico avrebbe mostrato interesse per un Ministero definito “poco importante” e fonte solo di “rogne e grandi seccature”. Non si può certamente negare che, nel consueto gioco del totoministri che ha attirato l’attenzione di tutti nel corso delle ultime settimane, la casella del lavoro sia rimasta per lungo tempo sottotraccia senza mai comparire nelle pagine dei quotidiani e nei talk show televisivi. E tuttavia, se davvero così fosse, non si capirebbe allora con quale coraggio si possa invece ambire a responsabilità di indirizzo politico su dossier da far tremare i polsi, oggi più di ieri, come quelli relativi all’ambiente, alla sicurezza energetica, alla economia, alla scuola, alla difesa o allo sviluppo del Mezzogiorno.
Lasciamo poi al gossip giornalistico degli ultimi giorni – che pure tanto piace all’Italietta nostra e, soprattutto, a chi è a corto di solidi argomenti – considerazioni su reali o presunti conflitti di interessi della neo ministra maturati nel lungo periodo alla guida del Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro. Così come ci pare risibile l’idea di una sua incompatibilità ontologica con il dicastero di via Veneto, quale rappresentante degli interessi delle imprese. Per prima cosa gli ordini professionali sono enti pubblici non economici con valenza associativa che concorrono alla realizzazione di interessi generali. E del resto nessuno avrebbe avuto qualcosa da dire se fosse diventato Ministro del lavoro un imprenditore o un sindacalista. Se mai si potrebbe discutere della tendenza, comune a molti ordini professionali, di alimentare veri e propri “regni”, per la lunghezza dei mandati, cosa che, per esempio, è vietata negli statuti di alcune associazioni di rappresentanza del mondo delle imprese a partire dalla Confindustria nella convinzione della importanza di un costante cambio al vertice. Non è forse un caso che il Sole 24 Ore, nel presentare il profilo e le sfide che attendono la neo ministra abbia chiuso l’istantanea con la notazione che Marina Calderone sia “solita rivolgersi ai 27mila consulenti del lavoro iscritti come «suoi figli»”.
È certamente vero che sui principali social network si raccolgono in queste ore ampie e appassionate manifestazioni di entusiasmo da parte degli iscritti all’ordine, come se ora si attendessero (citazione testuale) “una svolta per la categoria” in termini di egemonia nell’ambito della consulenza in senso ampio a favore di imprese e ruoli di responsabilità istituzionale. Chi conosce i consulenti del lavoro, e ne ricorda la breve ma intensa storia dall’anno di costituzione dell’Ordine a oggi, sa molto bene che questo entusiasmo è solo dovuto all’affetto e alla stima che Marina Calderone si è conquistata all’interno di una categoria che, se si vuole essere intellettualmente onesti, un salto qualitativo lo ha già fatto proprio durante la sua presidenza del Consiglio nazionale dell’ordine sia in termini di valorizzazione e standard qualitativo della professione che di conquista di nuovi spazi di azione per i professionisti. Se in qualche post o commento social un eccesso di entusiasmo c’è stato questo è, dunque, ben comprensibile sul piano umano ed è anzi un segnale da non sottovalutare in un contesto, quello degli ordini professionali, che spesso alimenta invidie e inimicizie. Altrettanto nota del resto, almeno tra gli addetti ai lavori, è l’intelligenza politica di Marina Calderone per cui è lecito attendersi che, ben presto, entrerà nel nuovo ruolo istituzionale consapevole che ogni decisione che dovesse essere intesa dal mondo delle imprese e del lavoro come un indebito vantaggio per la categoria dei consulenti del lavoro finirebbe per minarne in modo irreparabile la credibilità e l’autorevolezza istituzionale.
È facile immaginare che le cronache dei prossimi giorni – terminata la fase di curiosità verso una personalità nota agli addetti ai lavori ma molto meno al grande pubblico – inizieranno a ipotizzare l’agenda del neo Ministro del lavoro che, senza scomodare ingombranti paragoni col passato, è invero già abbastanza delineata stretta come è la strada dell’indirizzo politico tra vincoli dovuti alla attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (pensiamo, in primis, alle politiche attive del lavoro, al programma GOL e al robusto investimento sui centri pubblici per l’impiego) ed emergenza economica e sociale (costo della energia, emergenza occupazionale, reddito di cittadinanza). Certamente un cavallo di battaglia dei consulenti del lavoro è sempre stato il tema della semplificazione delle regole burocratiche e amministrative del lavoro e, in questa direzione, è facile ipotizzare una drastica revisione del “famigerato” decreto trasparenza del Ministro Orlando, che tante proteste ha sollevato tra operatori (consulenti del lavoro in primis) e imprese. Sul punto va anche sottolineato un aspetto non banale e cioè il rischio che il mito della semplificazione si trasformi in un vero e proprio boomerang per la categoria dei consulenti del lavoro che, negli ultimi venti anni, si sono sistematicamente lamentati per l’insipienza tecnica del legislatore e la complessità normativa. Cosa in parte vera se non fosse che la “complessità normativa” non è sempre mero difetto tecnico di redazione di un testo di legge o di una circolare, quanto il punto di compromesso tra interessi contrapposti nella regolazione di questioni altamente complesse e in continua trasformazione che nel processo parlamentare passano di mano in mano e che poi trovano applicazione in una tale varietà di casi che spesso non rientrano nelle ipotesi astratte contemplate dal legislatore.
E tuttavia, per chi ha a cuore le sorti del nostro Paese e il tema del lavoro, il vero punto su cui volgere ora l’attenzione ci pare un altro in linea del resto con quanto si legge nella formula del giuramento di un Ministro di “esercitare le (sue) funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Non crediamo infatti sia lesa maestà ricordare – in una riflessione che vuole essere costruttiva ma non piegarsi alla lusinga – che nei diciotto anni del suo mandato, come presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, ha conquistato non pochi spazi per la categoria dei consulenti a scapito della rappresentanza di imprese e lavoro o, meglio, della rappresentanza storica e certamente ancora oggi maggioritaria che ruota attorno ai sistemi contrattuali e bilaterali della triplice. Persino sul tema scottante del dumping contrattuale e dei cosiddetti “contratti pirati” non sono rare le iniziative pilotate da singoli consulenti del lavoro che, per mantenere in vita imprese e anche settori produttivi (si pensi al caso dei faconisti del tessile), hanno avviato inedite esperienze contrattuali di dubbia natura e qualificazione giuridica.
Ora, se la rappresentanza tradizionale di imprese e lavoro ha progressivamente perso terreno – al punto da non essere consultata per la designazione del Ministro del lavoro, cosa un tempo neppure lontanamente immaginabile – non poche colpe sono attribuibili al suo ritardo storico nel capire le trasformazioni del lavoro e adottare, conseguentemente, coraggiose e realmente nuove strategie di difesa e costruzione sociale degli interessi dei loro associati. Resta tuttavia il fatto che la decisione – imputabile direttamente, almeno così si sussurra, al neo Presidente del consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni – apre ora due grandi interrogativi. Il primo all’interno della politica italiana, in questo caso del centro destra, incapace di esprimere una figura politica espressione di una cultura del lavoro (riformista o meno è altra questione) che, dai tempi della legge Biagi, è finita via via per scomparire letteralmente dai radar del dibattito pubblico anche per l’incapacità di rinnovarsi e di tradurre in realtà quanto contenuto nei progetti di modernizzazione del diritto del lavoro. Il secondo con impatto sostanziale sul futuro prossimo di imprese e lavoratori, nella convinzione di poter affidare ad un tecnico, per quanto d’area come si usa dire in questi casi, questioni che di tecnico hanno davvero ben poco traducendosi necessariamente in scelte che, nel decidere le sorti di milioni di lavoratori e imprese come di pensionati e disoccupati, hanno a che fare, prioritariamente con profili non formalistici ma di “interesse” nel delicato equilibrio, per l’appunto politico, tra sociale ed economico.
Ed è qui che si possono rintracciare gli spunti più significativi della breve riflessione che abbiamo inteso avviare. È infatti nostra radicata convinzione che la drammaticità e l’urgenza delle questioni che si presenteranno nei prossimi mesi si potrà gestire solo applicando un metodo che non è tecnico ma politico, quello delle relazioni industriali e del dialogo sociale. È quando ha detto del resto la stessa Giorgia Meloni, all’indomani dell’esito delle elezioni politiche, davanti alla platea di Coldiretti, riconoscendo di non poter agire da sola per gestire la gravità dei problemi economici e sociali che tanto preoccupano lavoratori e imprese. Sapranno le rappresentanze di imprese e del lavoro rinnovarsi per conquistare una rinnovata e necessaria centralità politica, nel senso più nobile del termine, o si accoderanno a traino alle scelte della politica subendole più o meno passivamente, come avvenuto con la designazione del nuovo Ministro del lavoro, col rischio di una nuova stagione di tensioni e di una conflittualità sociale pronta a esplodere nei prossimi mesi?
Non sta a noi dare una risposta a un interrogativo così difficile che mette in discussione la vita e l’azione dei corpi intermedi da troppo tempo bistrattati nel nostro Paese. “Giudicheremo nel merito della azione del nuovo Governo”, dicono ora le parti sociali a poche ore dal giuramento. Ma è anche vero che sarà poi la storia a giudicare la dirigenza di queste stesse parti sociali nella loro capacità o meno di essere vera rappresentanza di interessi e cioè attore della costruzione di quello “spazio pubblico”, nel senso arendtiano del termine, capace di aggregazione, solidarietà e radicamento sociale in risposta alla frantumazione e individualizzazione degli interessi in tanti piccoli egoismi che impediscono poi, pur nella diversità delle posizioni e visioni, di concorrere tutti assieme al bene comune.
E tuttavia che questa sia la direzione da seguire ci pare averlo capito per prima la stessa Marina Calderone che nella prima dichiarazione ufficiale, nel mostrarsi “onorata e orgogliosa” di poter mettere il suo impegno a disposizione del Paese, ha prontamente ammesso “la necessita di soluzioni frutto di un rinnovato dialogo sociale (…) affinché si possano trovare soluzioni condivise a beneficio del mondo delle imprese, dei lavoratori dipendenti e autonomi e più in generale di un mondo del lavoro sempre più inclusivo, contrastando forme di disuguaglianza e povertà”.
Michele Tiraboschi
Ordinario di diritto del lavoro
Università di Modena e Reggio Emilia