Con Matteo Renzi premier, il rito nuovo della Sala Verde non ha riservato sorprese. Perché le premesse erano chiare da mesi. Nessun confronto per ore alla ricerca di nuovi compromessi e faticose convergenze. Il premier ha detto a sindacati e imprese quel che si sapeva da prima, cioè quel che aveva concesso alla minoranza del suo partito nella direzione Pd, a oggi l’unico vero organo italiano in cui il governo si confronti con un’opposizione vera, e della quale palazzo Chigi deve tener conto, almeno in una certa misura. Abolisco la concertazione, disse Renzi prima ancora di diventare premier. E l’ha fatto, in questi mesi.
Quel che più conta sono quattro elementi politici. Purtroppo, non i testi e le misure che il governo varerà. Perché quelli ancora non li conosciamo se non per titoli, come sta diventando la regola della prassi politico-istituzionale italiana. Di un Paese che da parte del governo e a Renzi ne va reso atto mostra di voler aggredire molti problemi insieme con raffiche di interventi, per recuperare anni perduti; e dall’altra manca però in maniera macroscopica della capacità di tradurre in tempi altrettanto rapidi le affabulate intenzioni in testi precisi.
Ma torniamo agli elementi politici: due riguardano l’Europa, e due l’Italia. La partita autunnale europea comincia oggi a Milano con il summit straordinario sul lavoro, fortemente voluto dalla presidenza di turno italiana. Ma avrà il suo tempo decisivo nell’esame europeo della legge di stabilità per il 2015, che il governo emanerà a metà ottobre. A Renzi serviva giungere al summit odierno con la garanzia che gli oppositori nel suo partito e nei sindacati non fossero in grado di stoppare e annacquare la promessa riforma del lavoro. Porre la fiducia su una legge delega di cui c’è un testo da emendare è servito all’obiettivo.
La Merkel, ieri, non a caso ha fatto dire che sostiene la riforma italiana. L’obiettivo primo è quello di far avvertire oggi alla Germania che molti voci europee, non solo Italia e Francia, chiedono di considerare misure per la crescita e riforme organiche come indicatori essenziali da valutare, per ridurre l’ouput gap e dunque migliorare i saldi di bilancio nel medio periodo. La Germania sta registrando cadute della produzione industriale e dei suoi indicatori di fiducia che iniziano a preoccupare anche il Fondo Monetario Internazionale, come si può leggere nel World Economie Outlook aggiornato ieri. Alla peggio, se nella nuova Commissione Junker dovesse ancora prevalere l’orientamento di bocciare i conti francesi e italiani perché non rispettosi dell’impegno di ridurre ulteriormente il deficit pubblico verso l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo, Renzi non si fermerà comunque e non accetterà la bocciatura.
Quello che ancora pochi hanno capito, è che in quel caso Renzi e Padoan sono pronti a sostenere che è la cattiva Europa che sbaglia, non l’Italia ad avere torto. I due obiettivi politici sulla scena italiana sono invece distinti. Il primo riguarda il cuore del problema economico italiano nella lettura data da questo governo. Il secondo la prospettiva politica. Renzi ha abbracciato in questi mesi una tesi che è il criterio ispiratore di tutti i suoi interventi, e rivelatori sono quelli pronunciati all’estero, l’ultimo a Londra.
Nella consapevolezza che occorrono anni per riorientare energicamente verso l’alto fattori strutturali che da 15-20 anni ristagnano o flettono, come la produttività, la produzione, il reddito, i margini delle imprese, il tasso di occupazione (che strutturalmente dice più di quello di disoccupazione, questo può avere impennate nelle crisi e rapidi riassorbimenti a seguire se un paese è solido, mentre stagna a quote alte se un paese è infiacchito come il nostro), Renzi ha sempre proposto innanzitutto un cambio degli animai spirits, dell’approccio culturale, della fiducia, della passione. Per questo il martellamento sull’articolo 18, ripetuto alle imprese estere come nuova credenziale di affidabilità di un sistema-Italia che vuole cambiare in fretta, conta più del fatto che, tecnicamente, se poi nei decreti delegati si finirà per tipizzare in maniera tignosa i licenziamenti disciplinari, in quel caso il rischio di ridare il reintegro a quelli economici individuali resterà tale e quale. Per questo l’impegno, ribadito ieri dal premier, a consentire il Tfr in busta paga ai lavoratori che lo preferissero viene prima della soluzione dei tanti problemi che a questa possibilità hanno sin qui ostato: da dove prende lo Stato i denari per darlo in busta ai suoi dipendenti visto che non lo accantona, come si fa a evitare che per le piccole imprese senza credito non sia un ulteriore tracollo di cassa, come sia immaginabile che le banche lo anticipino a meno del 2% di interesse, come evitare che si traduca nel fatto che lo Stato se ne prenda un bella fetta in tasse.
A ben vedere, lo scontro di Renzi con la minoranza Pd e con la Cgil è esattamente su questo “cambio di spirito”, non sui testi e le misure. Perché su quelle in direzione Renzi ha mediato eccome, dai licenziamenti disciplinari ai demansionamenti, non a caso su aspetti centrali per l’identità storica della sinistra, ma del tutto secondari rispetto ai veri punti che potranno cambiare davvero le cose sul versante dell’occupabilità, cioè un’Agenzia nazionale del lavoro efficiente se aperta ai privati o no, un finanziamento dello strumento di sostegno al reddito universale che non aggravi le imprese o no, e via continuando. Ma è sul “cambio di spirito” che la Cgil scenderà in piazza dopo la legge di stabilità. Renzi vuole vincerla, questa battaglia politica che si combatte tutta a casa sua, in una casa rispetto alla quale è eterogeneo e che dopo molto averlo avversato lo ha accettato come leader sol perché chi è venuto prima ha commesso degli errori incredibili. Vuole vincerla come premessa per il suo quarto obiettivo.
Quello di radicare sulla riforma del lavoro, affiancata al no di fatto per il fiscal compact, i due pilastri di un partito stabilmente poco sotto o poco sopra il 40%. Cioè per definizione “oltre” il bacino storico della sinistra ex comunista italiana. Ad aiutare Renzi c’è il fatto che, oggi, è solo in campo. Non c’è nessun partito o coalizione credibilmente contrapposti, nessun leader capace di contendergli la primazia. Ma a gioire contro Renzi è la gravità della crisi italiana. La Grecia cresce dello 0,6% quest’anno e del 2,9%, nelle previsioni, per il 2015.
Noi non abbiamo avuto esplosioni di protesta violenta come in Grecia. Ma abbiamo rappresentanze politiche e sociali sfilacciate, con milioni di italiani non rappresentati né dai sindacati, né nel voto delle ultime europee. L’appetito viene mangiando, si suol dire. Speriamo che le buone riforme vengano provandole, perché molto presto dopo i simboli del passato da travolgere vengono i commi da scrivere. La storia italiana è purtroppo piena, di commi mal scritti che tradiscono le migliori intenzioni.
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Concertazione in soffitta, ultima chiamata