La preparazione è più importante della posizione. È questa la significativa differenza tra il moderno mercato del lavoro e quello conosciuto nei decenni antecedenti alla crisi economica. “Se vieni assunto lì sei a posto per tutta la vita!”: il criterio di scelta del datore di lavoro è sempre stato la garanzia di stabilità. Non è più così. Non solo perché con il Jobs Act anche il contratto a tempo indeterminato è diventato più facilmente recidibile, ma soprattutto perché è cambiata l’economia, ora freneticamente liquida, incostante: storici e affermati marchi falliscono in pochi anni, improvvisamente, affossati dal cambiamento tecnologico che ha accorciato la vita utile dei prodotti e dei servizi. Si pensi alla diffusione dello shopping online, all’home banking, all’evoluzione di PC, telefoni e tablet, agli ebook, al car sharing etc… Si tratta di fenomeni che stravolgono le nostre abitudini e, ancor più, il mercato del lavoro che ci circonda, aggiornando (se non addirittura superando) i mestieri e le competenze necessarie per svolgerli.
Le recenti indagini sull’evoluzione della domanda di lavoro nel nostro Paese certificano questa tendenza: accanto ai tradizionali settori manifatturieri che trainano l’economia nazionale e che stanno vivendo una fase di trasformazione tecnologica verso la c.d. Industry 4.0, emergono nuove professioni nel campo dell’analisi delle informazioni (big data), della progettazione di software e applicazioni e dell’automazione dei processi. Sinteticamente: resistono alla competizione globale le imprese che modernizzano tanto i propri prodotti quanto i processi produttivi e le start-up che riescono a cogliere le opportunità offerte dal progresso tecnologico. Sia le prime che le seconde hanno bisogno di collaboratori (prima ancora che di dipendenti) innanzitutto duttili e adattivi, in grado di affrontare situazioni estremamente diversificate. Conseguentemente ogni strategia formativa o politica attiva orientata alla formazione di competenze specifiche fornisce pessimo servizio ai giovani che vi si affidino. Questo non vuole dire che sia inutile studiare, ma suggerisce un cambiamento di metodo denso di implicazioni istituzionali e pedagogiche che ancora fatichiamo a comprendere: non più programmi pieni solo di teoria, ma centralità della pratica. Meno nozionismo, più alternanza tra istruzione, formazione e lavoro. Solo così si educheranno persone capaci non tanto di inchiodarsi al proprio posto, come una volta, quanto di trovare sempre lavoro, anche in un mercato instabile, perché formati ad imparare le mutevoli conoscenze tecniche necessarie per essere (sempre) occupati.
*pubblicato anche in su Il Resto del Carlino, Il Giorno, La Nazione del 7 settembre 2016
Presidente ADAPT