Contrattazione collettiva e disuguaglianze salariali: quale relazione tra i due fenomeni? È questa la domanda di ricerca cui ADAPT, insieme alla Università di Leicester (UK), AIAS – Università di Amsterdam (NL), IAT – Institut für Arbeitsforschung und Transfer (DE) e CELSI – Central European Labour Studies Institute (SK), si propone di rispondere nell’ambito del progetto NEWIN – Negotiating Wages (In)Equality. Cofinanziato dalla Commissione europea, l’iniziativa si propone di analizzare l’evoluzione e le determinanti delle disuguaglianze salariali in cinque Paesi: Germania, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito, Slovacchia. In questo commento sono riportati, in sintesi, i risultati della prima fase della ricerca.
Germania
Prima delle riforme attuate nel periodo 2003-2005, alla Germania era attribuito l’appellativo di “sick man of the euro” e le istituzioni del mercato del lavoro tedesche venivano considerate costose e inefficienti. Ma a partire dal 2005, il Paese è stato protagonista del cosiddetto “miracolo occupazionale” (in inglese “job miracle”): incrementi salariali flessibili hanno favorito la creazione di nuovi posti di lavoro. Anche in seguito allo scoppio della crisi finanziaria, la repubblica federale ha dimostrato una buona capacità di resilienza, tornando in tempi rapidi ad una relativa prosperità economica. La Germania costituisce oggi un modello economico per l’Europa, sebbene nell’ultimo decennio sia stato registrato nel Paese un incremento delle disuguaglianze economiche e salariali. Donne e giovani, in particolare, si trovano ai margini bassi della forbice salariale. Per far fronte a queste disparità, è stato introdotto il Minimum Wage Act (Mindestlohngesetz, MiLoG), che dal 1 ° gennaio 2015 obbliga ogni datore di lavoro a garantire la copertura salariale minima stabilita dalla legge. Il piano, tuttavia, non sembra sufficiente a ridurre le disuguaglianze salariali, anche per la ridotta efficacia della contrattazione collettiva. In effetti, specie in alcuni settori, si registra un processo di erosione nella copertura contrattuale conseguente ai processi di disgregazione verticale della produzione, alla diffusione di lavori non-standard (es. i “mini-jobs”) e alla fuga delle aziende dai contratti collettivi.
Italia
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia ha iniziato un processo economico disomogeneo con alternanze tra tassi cospicui e mediocri del coefficiente di Gini (il principale indicatore delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito). Complessivamente, secondo alcuni dati della Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD), l’Italia presenta ancora tassi di ineguaglianza molto elevati. Alcuni fattori contribuiscono a spiegare il permanere di queste disparità ed enfatizzano le specificità del caso italiano. Da un lato, il differenziale retributivo tra Nord e Sud d’Italia e la scarsa presenza femminile ai vertici manageriali rendono le donne residenti nelle regioni meridionali una delle categorie più a rischio di emarginazione e povertà. Dall’altro, l’emergere di nuove tipologie contrattuali e la tendenza a legare la crescita salariale ad elementi fissi, come l’anzianità di servizio, contribuiscono a spiegare il basso livello retributivo dei lavoratori giovani e non-standard. Cresce, infine, la preoccupazione per le disparità salariali tra lavoratori in cima alla piramide aziendale e operai scarsamente qualificati, così come per le divergenze nei livelli di retribuzione all’interno di medesimi comparti dell’economia. Dato che i salari costituiscono uno degli istituti più disciplinati dalla contrattazione collettiva e che la copertura contrattuale riguarda circa il 60% della forza lavoro, in Italia più che altrove, le parti sociali sono chiamate a svolgere un ruolo determinante per il contenimento delle disuguaglianze retributive.
Paesi Bassi
Le relazioni industriali dei Paesi Bassi si contraddistinguono per il modello c.d. “polder”, che basa le decisioni relative al mercato del lavoro su negoziati tripartiti tra le organizzazioni dei datori di lavoro, i sindacati, e il governo. In questo modello, che si è sviluppato soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta, le parti sociali sono responsabili degli accordi collettivi sul lavoro e dei negoziati salariali, mentre il governo olandese fornisce la cornice legale delle consultazioni. Fatta eccezione per una breve parentesi recessiva all’inizio degli anni Ottanta, i Paesi Bassi hanno conosciuto negli ultimi tre decenni un periodo di sostenuta crescita economica. Questo sviluppo, rallentato solamente dalla recente crisi generalizzata del debito pubblico, si mantiene ad oggi costante. Capire il funzionamento del modello che negli ultimi decenni ha trainato l’economia del Paese si rivela importante per leggere l’attuale distribuzione del reddito e l’aumento delle disuguaglianze salariali. Infatti, l’accelerata crescita delle retribuzioni dei top manager e il parallelo impoverimento reale delle buste paga di molti lavoratori, con particolare riferimento alle categorie di lavoro autonomo e agli impiegati a tempo determinato, rappresentano la doppia sfida che le parti sociali olandesi si trovano ad affrontare. Oggi, sindacati, camere del lavoro e associazioni datoriali sono chiamati a ripensare le proprie strategie di negoziazione e a prendere in esame criteri di retribuzione che vadano oltre la tradizionale valorizzazione del percorso professionale del lavoratore (livello di istruzione, età anagrafica e anni di esperienza lavorativa) e che meglio aggancino i profitti aziendali alle prestazioni individuali dei dipendenti. La revisione della politica salariale non è comunque sufficiente per diminuire la forbice delle retribuzioni e serve uno sforzo maggiore delle parti sociali per estendere la copertura anche ai quei profili occupazionali che ancora sfuggono alle maglie della contrattazione collettiva.
Regno Unito
Il Regno Unito è uno dei Paesi dell’Unione europea che registra il più alto tasso di disuguaglianze salariali. Questo tratto peculiare non è stato oggetto di particolari attenzioni da parte del governo laburista. Eppure, la crisi finanziaria che ha investito il Paese nel 2008, ha ulteriormente eroso le retribuzioni dei lavoratori, specialmente di quelli meno qualificati, sensibilizzando il governo sul tema delle disparità di reddito. Varie iniziative sono state lanciate per contenere il fenomeno, tra cui l’istituzione della “High Pay Commission” nel 2009 e il “High Pay Centre” nel 2011. I risultati ottenuti sono stati tuttavia inconsistenti. Come riscontrato nei Paesi Bassi, infatti, anche nel Regno Unito la disuguaglianza di reddito ha continuato a crescere in maniera sostenuta, complice l’allargamento della forbice tra i compensi dei top manager e quelli dei lavoratori dipendenti. Questo fenomeno è evidente soprattutto nel settore metalmeccanico, dove l’innovazione tecnologica è in costante progressione contribuendo a privare il settore dei lavoratori tradizionalmente impiegati in occupazioni di routine. Al contempo, aumenta la domanda di manodopera per lo svolgimento delle attività di progettazione. Questi lavoratori, tuttavia, presentano un basso indice di sindacalizzazione e possono dunque incorrere maggiormente nel rischio di dispersione salariale rispetto ai colleghi più rappresentati dagli attori della contrattazione collettiva.
Slovacchia
La Slovacchia è membro dell’Unione europea dal 2004 e nel 2009 ha adottato l’euro in un contesto di crescita economica trainata dalle esportazioni, da una percentuale elevata di investimenti diretti esteri e da politiche economiche incentrate sul commercio. La copertura della contrattazione salariale risulta piuttosto alta rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea. Ne conseguono livelli di disuguaglianza relativamente contenuti seppur persistenti. La cosiddetta “tigre dell’Est” ha un tasso di occupazione medio-alto che nel 2012 ha raggiunto il 65,1%, consentendo una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e una reale inclusione dei gruppi più vulnerabili. Tali condizioni influenzano positivamente la qualità del lavoro ma tendono ad enfatizzare le divergenze salariali soprattutto tra lavoratori tradizionali e non-standard. Da una parte, infatti, le disuguaglianze vengono attenuate attraverso il sistema dei salari minimi e contratti collettivi. Dall’altra, il crescente numero di lavoratori atipici, a cui non vengono applicati i contratti collettivi, rende la contrattazione collettiva una determinante del dualismo salariale nel mercato del lavoro.
Valutazioni d’insieme
Tutti i Paesi presi in esame dal progetto NEWIN (Negotiating Wages (In)Equality) registrano elevate diseguaglianze di reddito tra i lavoratori, con particolare riferimento alle differenze tra i compensi percepiti da chi occupa alte posizioni manageriali e quelli dei lavoratori dipendenti. Un’ulteriore aggravante è costituita dalla presenza di “soggetti deboli” che ancora non vengono pienamente tutelati e rappresentati dagli attori della contrattazione. Questi ultimi sono soprattutto i lavoratori parasubordinati, le donne, i portatori di handicap, ed i soggetti bisognosi di cure e di assistenza sanitaria. In particolare, in Germania e Italia la percentuale delle donne che lavora è sensibilmente aumentata, sebbene non sia ancora al pari di quella maschile, ma resta comunque ben al disotto del “tetto di cristallo” per quanto riguarda i livelli retributivi. I risultati preliminari del progetto NEWIN mostrano l’importanza di attribuire maggiore potere negoziale alle parti sociali, per correggere, se non eliminare del tutto, le divergenze salariali, le quali, oltre a danneggiare la posizione economica dei lavoratori meno qualificati, possono originare acute tensioni sociali. I contratti collettivi possono infatti rivestire un ruolo fondamentale in questo processo di riallineamento dei redditi, ma se male e poco applicati, rischiano di favorire, piuttosto che contenere, le differenze salariali.
Beatrice Casella
ADAPT Junior Fellow
@BeatriceCasella