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Bollettino ADAPT 14 giugno 2021, n. 23
Su La Repubblica del 9 giugno 2021, nell’articolo “Non riusciamo a trovare 120 dipendenti e laureati” l’imprenditore Maurizio Marchesini riassume in pochissime parole i problemi concreti delle difficoltà dell’incontro domanda/offerta di lavoro. L’imprenditore racconta che pur di rafforzare i ranghi dell’azienda “non chiediamo esperienza pregressa, va bene anche che (i lavoratori, NDA) siano al primo impiego”.
Ecco il punto: l’esperienza pregressa. È perfettamente chiaro e comprensibile che le aziende in cerca di lavoratori, se possono, considerano come primissima opzione assumere chi già lavora in un’altra azienda, per ragioni molto evidenti. In tal modo possono contare su una persona già qualificata, esperta e da formare molto limitatamente, con capacità operative attuali e comprovate.
Non è un mistero che alcuni portali del lavoro tra quelli maggiormente citati siano una vetrina esattamente di questo tipo, finalizzata, cioè, all’incontro domanda/offerta rivolto a chi un lavoro o una professione ce l’ha già. Nulla di male, anzi, va benissimo: si tratta di opportunità che il mercato del lavoro non può non offrire per la crescita sia delle aziende sia dei lavoratori.
È evidente, però, che tale prima opzione ha effetti estremamente limitati, se non nulli, sull’occupazione: consente solo una diversa allocazione di una forza lavoro già impiegata.
La seconda opzione è la ricerca di lavoratori privi di occupazione, ma, appunto “con esperienza”.
Anche questa tipologia di ricerca è perfettamente comprensibile e inevitabile. L’assunzione di personale esperto nel settore, ancorché attualmente disoccupato, consente all’azienda un innesto più semplice e veloce. D’altra parte, il lavoratore esperto non può non godere del vantaggio competitivo acquisito nel mercato, proprio grazie all’attività lavorativa pregressa svolta nel settore, dimostrabile e valutabile.
Gli effetti complessivi di questa seconda modalità di approccio nel mercato del lavoro sono, ovviamente, maggiormente rilevanti. Infatti, la ricerca di personale disoccupato esperto, se va a buon fine, riconduce il lavoratore interessato dalla condizione di disoccupazione a quella di occupazione, con benefici evidenti per la situazione occupazionale complessiva.
Per questo è strategico provare a ricollocare il più presto possibile i disoccupati percettori di Naspi, in modo che non perdano le competenze e le abilità acquisite appunto con l’esperienza e possano presentarsi molto spendibili.
D’altra parte, gli osservatori del mercato del lavoro dimostrano che moltissimi disoccupati percettori di Naspi, se operano in settori non afflitti da crisi profonde o ristrutturazioni, sono in grado anche da soli di ricollocarsi entro un quadrimestre.
Questo vuol dire che, appunto nei settori in crescita o stabili e non in crisi, che la disoccupazione del lavorare con esperienza è spesso (si vorrebbe lo fosse sempre, ma le variabili sono troppe…) solo “frizionale”, connessa, cioè, al movimento carsico di lavoratori che passano da un’azienda all’altra, talvolta anche a causa proprio della prima opzione (dimissioni e quasi contestuale nuovo lavoro) o da riorganizzazioni delle aziende in settori ricettivi del personale già impiegato ed “esperto”.
Anche la seconda opzione, nella sostanza, in un mercato del lavoro fluido e non in crisi, non eleva più di tanto il numero degli occupati.
La ricerca dell’esperienza può finire, tuttavia, per essere una trappola, per datori e lavoratori. La ricerca di lavoratori esperti può giungere al parossismo: le aziende mirano solo al lavoratore capace ed esperto e scartano ogni diversa possibilità e, se le condizioni operative lo consentono, si legano a circuiti come quelli del lavoro somministrato, nel quale il “giro” dei lavoratori, pur ampio, è sostanzialmente sempre lo stesso, composto appunto da lavoratori esperti, somministrati in più aziende che richiedano quel certo tipo di competenza.
Precisiamo: va ovviamente benissimo anche il prezioso contributo al mercato del lavoro che danno le agenzie di somministrazione.
È, comunque, evidente che se la ricerca di lavoratori si restringe esclusivamente a coloro che dispongano di esperienza pregressa, una fetta larga di persone è destinata a restare fuori ed ai margini. E si tratta, naturalmente, dei neo diplomati e neo laureati, o di chi esce da settori in crisi e voglia intraprendere nuove carriere in settori diversi e necessiti, quindi, di una formazione diversa rispetto alle competenze acquisite.
Il parossismo nella ricerca del personale esperto può portare anche a distorsioni, che ADAPT ha molte volte segnalato, come quelle dell’utilizzo improprio di strumenti volti, invece, esattamente allo scopo di dare possibilità formative. Ci riferiamo alla proposta di tirocini rivolti a “personale esperto”: un ossimoro che rivela la percezione del tutto erronea della funzione di strumenti volti a creare appunto “esperienza” in capo a lavoratori, che di quell’esperienza non dispongono.
In questi giorni sui giornali e sui media è al centro dell’attenzione il problema, per la verità annoso, del mismatch tra domanda ed offerta. Sicchè, “fa notizia” perfino la circostanza che un’impresa seria ed in salute, come la Marchesini assuma lavoratori al primo impiego. Meritorio senz’altro. Ma, non dovremmo chiederci se questa assunzione di responsabilità della Marchesini non debba essere la normalità?
Oppure, girando la domanda, dovremmo chiederci cosa è necessario perché i lavoratori al primo impiego, dunque sostanzialmente gli inoccupati o anche disoccupati provenienti da settori lontani da quelli nei quali operino le aziende che domandano lavoro, possano risultare comunque spendibili.
La risposta è nota da anni, ma da anni non viene attuata pienamente. Il mercato non punta adeguatamente su strumenti volti a creare nei lavoratori quell’esperienza sul campo della quale possano risultare privi.
L’uso spesso distorto del tirocinio, non come strumento di formazione ed esperienza, bensì come vero e proprio lavoro in prova a basso costo è una grave stortura. Forse andrebbe ripensato o introdotto un tirocinio inteso come un apprendistato semplificato a tempo determinato (vedi L. Oliveri, Per una revisione dei tirocini: apprendimento e lavoro, in Bollettino ADAPT n. 24/2013).
Proprio l’apprendistato rimane il grande potenziale poco utilizzato. Dovrebbe essere il contratto principe del mercato del lavoro, il “contratto a tutele crescenti” per eccellenza, viste le forti convenienze per le aziende e per i lavoratori. Le prime possono contare su sgravi contributivi rilevanti e sulla formazione sul campo delle persone, rimediando così alla carenza di esperienza pregressa, nonché sulla possibilità di recedere liberamente dal rapporto, conclusa la formazione. Il lavoratore, a sua volta, può contare su un rapporto subordinato vero e proprio, sulla formazione esperienziale, sull’occasione, quindi, di ingresso nel mercato volta a rimediare ad una sua iniziale situazione di limitata esperienza sul campo.
Le politiche attive dovrebbero fortemente incentrarsi proprio su modi per incentivare imprese e lavoratori ad incontrarsi a metà strada tra formazione e lavoro, già a partire, però, dal sistema dell’istruzione.
I centri per l’impiego pubblici, come le agenzie private, dovrebbero avere costantemente a disposizione profili e skill aziendali nuovi o di difficile reperibilità, indicati dalle aziende, per costruire con gli enti di formazione o la scuola o la stessa università percorsi formativi specifici “on demand” per le aziende, nella logica della sussidiarietà, della collaborazione e del cofinanziamento. Così da costruire quelle esperienze o quelle competenze di base utili per superare le comprensibili riserve delle aziende all’assunzione di persone al primo impiego.
Non stiamo, in effetti, proponendo nulla di nuovo, ma ormai non è più possibile che di questi argomenti ci si limiti a parlare.
Il progetto GOL (garanzia di occupabilità per i lavoratori) previsto nell’ambito del Pnrr pare in effetti andare in questa direzione e il finanziamento con 4,4 miliardi di ero è un utile presupposto per passare ad un modo diverso di concepire i bisogni di lavoratori e imprese, la formazione e le forme contrattuali.
In questo quadro fa piacere che il lavoro pubblico si sia reso finalmente conto della rilevanza ed imprescindibilità di contratti a causa mista formativa e lavorativa.
Superato, sia pure solo in parte, il sistema del tetto al turn over, in particolare gli enti locali hanno riscoperto il contratto di formazione e lavoro, ancora operante nel lavoro pubblico.
Il decreto “reclutamento” apre, dopo 10 anni di attesa, finalmente, all’apprendistato nella pubblica amministrazione. Un passaggio atteso da tempo, in un sistema che, paradossalmente, ha operato in modo diametralmente opposto al privato: infatti, la PA molte volte accetta come ineluttabile l’eventualità che i nuovi assunti siano privi di esperienza, senza nemmeno porsi più di tanto il problema di formarli. La formazione, in particolare dal 2009, è stata anzi falcidiata e definanziata, relegata a spesa “di lusso” e da tagliare.
L’apprendistato può essere, nella PA, lo strumento che consenta una efficace semplificazione dei concorsi. Il recente d.l. 44/2021 ha, purtroppo, il difetto di incidere troppo sulla velocizzazione del reclutamento pubblico, consentendo che essa avvenga, in sostanza, solo con una prova scritta e sulla base di una valutazione di titoli ed esperienze per altro non fondata su punteggi e criteri standardizzati.
Un po’ poco, oggettivamente, per sondare il sapere e le competenze delle persone, mentre resta sempre sullo sfondo l’effettiva capacità del concorso di far emergere, oltre al sapere, anche il saper fare ed il saper essere.
L’apprendistato consente un “periodo di osservazione” e formazione, utile per valutare a fondo la capacità, l’apprendimento, le competenze delle persone, affinandole. Sicchè procedure concorsuali stringate possono ben abbinarsi ad un’ulteriore fase formativa (l’alternativa potrebbe essere quella del corso-concorso).
Il lancio dell’apprendistato nella PA potrebbe essere il viatico per un ben più potente suo rilancio anche nel sistema complessivo del lavoro.
Rispetto al lavoro pubblico, desta qualche perplessità solo l’aspetto sperimentale dell’avvio dell’apprendistato, connesso al finanziamento con soli 700.000 euro, tale da permettere oggettivamente di attivare ben pochi apprendistati pubblici.
Ma, perché, in effetti, porsi il problema del finanziamento dell’apprendistato nel pubblico? Sono stati, forse, i problemi finanziari a tenere per 10 anni in naftalina l’apprendistato nella PA?
Se così fosse, sarebbe paradossale. A ben vedere, non vi sono molte ragioni perché il bilancio pubblico finanzi sgravi contributivi a favore di datori di lavoro pubblici che assumano col contratto di apprendistato. Si sarebbe dovuto pensare ad una normativa specifica per l’apprendistato nel sistema pubblico, che non preveda gli sgravi contributivi esistenti nel privato, visto che si resta nell’ambito della spesa pubblica.
In tal modo, sarebbe possibile passare direttamente dalla sperimentazione, che troppo spesso significa limitare l’applicazione di un certo istituto a pochissimi casi concreti per mancanza di fondi, all’utilizzo a regime dell’apprendistato nella PA, come spinta all’ulteriore indispensabile lancio di questo contratto e delle misure di politica attiva non più rinviabili per permettere agli outsiders di rendersi spendibili nel mercato.
Luigi Oliveri
ADAPT Professional Fellow