Contratti a termine: nuovi spazi per la contrattazione collettiva

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Bollettino ADAPT 6 settembre 2021, n. 30

 

Sono gli ultimi dati diffusi dall’ISTAT (riferiti a luglio 2021) a ricordare ancora come buona parte del dinamismo del mercato del lavoro sia da attribuire a rapporti di lavoro a termine (+ 14,4% su base annua). Una tipologia contrattuale utile ad una gestione del personale in epoca di flessibilità necessitata da incertezze di mercato, prodotto, approvvigionamento di materie prime, contesto sanitario a livello locale e globale, cui le aziende ricorrono pur consapevoli dell’aggravio di costo previsto (contributo addizionale 1,4%).

 

La normativa di riferimento è ancora oggi il decreto legislativo n. 81/2015 (artt. 19 e ss.), nonostante il suo impianto abbia subìto un importante processo riformatore per effetto del c.d. “decreto Dignità” (tra gli altri, cfr. M. Menegotto, P. Rausei, P. Tomassetti (a cura di), Decreto dignità. Commentario al d.l. n. 87/2018 convertito dalla l. n. 96/2018), portatore di meccanismi particolarmente vincolanti e restrittivi, attraverso, tra l’altro, l’introduzione di un obbligo di apposizione – in determinate situazioni oggettive/soggettive – di “condizioni” (art. 19 co. 1 lett.  a e b) al rapporto di lavoro. Condizioni risultate nella prassi pressoché impraticabili.

 

Quel corpo normativo non lasciava, salvo limitati rinvii già presenti nella disciplina previgente, ampi margini d’intervento alla contrattazione collettiva, fatti salvi gli spazzi stretti delle intese di prossimità (art. 8 decreto-legge n. 138/2011), che in alcuni casi – non privi di difficoltà tecnico-giuridiche ma anche di relazioni industriali -, derogando parzialmente e temporaneamente alla nuova disciplina, hanno consentito il mantenimento dei livelli occupazionali e la gestione di “flessibilità regolata” in ingresso (come ipotizzavamo in M. Menegotto, P. Rausei, Il possibile ruolo della contrattazione di prossimità e come riscontrato, ad esempio, in AA. VV., La contrattazione collettiva in Italia (2020). VII Rapporto ADAPT).

 

L’assetto rigido è stato recentemente sottoposto ad una serie di interventi in deroga, in ottica conservativa dei livelli occupazionali, nell’ambito della decretazione d’urgenza emanata nel lungo periodo di emergenza sanitaria, in cui si prevedeva sostanzialmente la possibilità di prorogare e/o rinnovare rapporti a termine (anche in somministrazione) senza apposizione della causale (da ultimo, v. art. 17 decreto-legge n. 41/2021), per un certo periodo anche in costanza di ammortizzatori sociali.

 

In occasione della conversione in legge (n. 106/2021) del c.d. “sostegni bis” (decreto-legge n. 73/2021, art. 41-bis lett. a e b), il Legislatore è intervenuto nuovamente sull’istituto, questa volta operando due significativi rinvii alla contrattazione collettiva. 

 

Si tratta – lo diciamo subito – di un intervento estemporaneo, che desta non poche perplessità, che finisce per creare un complesso “doppio binario” (v. oltre), difficile da giustificare sul piano sistematico.

 

Analizzando ora la novella si può notare come, in primo luogo, l’art. 19 co. 1 lett. b-bis decreto legislativo n. 81/0215 consenta oggi di prorogare oltre i 12 mesi o rinnovare (comunque entro i 24 mesi), rapporti di lavoro subordinato a termine anche sulla base di “specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 [del medesimo decreto, ndr]”. Per effetto del rinvio operato dall’art. 34 co. 2 del decreto 81 la stessa disposizione è applicabile ai rapporti di lavoro subordinato a termine instaurati dalle agenzie di somministrazione di lavoro. In quest’ultimo caso, si tratterà di indicare la causale definita nel contratto collettivo applicato dall’utilizzatore (art. 2 co. 1-ter decreto-legge n. 87/2018).

 

In secondo luogo, si introduce un nuovo comma 1.1 all’art. 19, secondo il quale “Il termine di durata superiore ai dodici mesi, ma comunque non eccedente ventiquattro mesi, di cui al comma 1 del presente articolo, può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1, fino al 30 settembre 2022”. La novella apre alla possibilità, diversa da quella sopra esposta, di apporre sin dall’inizio un termine finale del contratto che superi i 12 mesi (ferma restando la durata massima), e non già per effetto di proroghe e/o rinnovi. Lo stesso comma prevede che ciò possa essere realizzato entro il 30 settembre 2022. A tal proposito è utile precisare che, da una lettura sistematica del testo di legge, il limite temporale è da riferirsi alla stipula dei singoli rapporti di lavoro, che potranno esplicare i loro effetti anche oltre quella data, e sulla base di contratti collettivi stipulati in epoca antecedente.

 

La limitazione della prima disposizione ai soli casi di proroga o rinnovo la si può evincere dalla ricostruzione dei rinvii interni al decreto legislativo n. 81/2015. La nuova lettera b-bis) è stata infatti inserita al primo comma dell’art. 19, a sua volta richiamato dall’art. 21 co. 01 del medesimo decreto, laddove dispone che “Il contratto può essere rinnovato solo a fronte delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1” mentre, allo stesso modo, “Il contratto può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1”. Diversamente, il nuovo co. 1.1 dell’art. 19 ne risulta svincolato.

 

In entrambe le ipotesi i contratti collettivi dovranno definire specifiche esigenze”. Si tratta di una locuzione che sembra imporre un certo grado di rigore nella formulazione delle condizioni, attraverso la stesura di clausole contrattuali circostanziate, oggettivamente riscontrabili nel caso concreto, e connesse logicamente alla stessa durata dei rapporti a termine, in grado cioè di superare l’eventuale vaglio giudiziale. Si possono immaginare molteplici esempi di clausole, tra cui, riferendosi al livello aziendale, potremmo annoverare: esigenze temporanee dovute a picchi di lavoro per una determinata linea/prodotto/reparto/ufficio; specifici progetti di innovazione/avvio nuovi impianti e/o lavorazioni; graduale ricambio generazionale con affiancamento lungo per lavorazioni complesse; passaggio di consegne con colleghi sostituiti in caso di determinate causali d’assenza; e così via.

 

Anche la contrattazione collettiva di livello nazionale potrà utilmente intervenire sulla base delle specificità settoriali. Un primo segnale lo si ha già avuto in occasione della stipula dell’ipotesi di accordo di rinnovo del CCNL per l’industria del tessile, abbigliamento, moda (28 luglio 2021) in cui le parti si sono impegnate, con apposita nota a verbale, a dare attuazione in sede di stesura definitiva a quanto sarebbe emerso nell’iter di conversione in legge del decreto “sostegni bis”.

 

Si tratta certamente di un provvedimento atteso, in grado di generare rapporti di lavoro di qualità perché riconducibili a quelle “specifiche esigenze” che la singola realtà potrà utilmente contrattare con le organizzazioni sindacali, superando alcune tra le più significative rigidità del dato di diritto positivo. Certo è che la sua formulazione non può ritenersi esente da critiche.

 

Come è evidente, seguendo un’interpretazione letterale della novella, si finisce per creare due regimi differenti, in cui nel caso delle proroghe e dei rinnovi di rapporti a termine la disposizione assume carattere sistematico mentre per l’assunzione ab origine superiore ai 12 mesi viene inserito un termine. Il che non appare giustificabile sul piano della razionalità giuridica, quanto piuttosto figlio dell’esigenza di un’ampia convergenza sul provvedimento in cui la stessa si colloca e delle diverse sensibilità politiche (si vedano le cronache parlamentari).

 

Marco Menegotto

ADAPT Professional Fellow

@MarcoMenegotto

 

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