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Bollettino ADAPT 16 gennaio 2023, n. 2
La sentenza del Tribunale di Vicenza n. 353 dello scorso 22 novembre 2022, avente ad oggetto un caso di disapplicazione unilaterale del contratto collettivo da parte del datore di lavoro, merita di essere portata all’attenzione per gli elementi di novità che caratterizzano l’iter logico-giuridico seguito dal giudice adito.
Prima di esaminare alcuni passaggi di rilievo della citata pronuncia, occorre passare in rassegna i principali approdi giurisprudenziali relativi alla tematica del recesso (e della disdetta) nelle complesse dinamiche della contrattazione collettiva di diritto comune.
Infatti, già a partire dagli anni’90, la tematica è stata oggetto di attenti studi della dottrina e di numerose pronunce della giurisprudenza – si pensi agli arresti intervenuti anche nell’ambito del celebre caso “Fiat” – che hanno giocato, e giocano tuttora, un ruolo centrale nella ricerca di soluzioni destinate a colmare il vuoto normativo che caratterizza la materia in esame (cfr. Cass. 7 novembre 2013, n. 25062, oltre a Cass. 20 agosto 2019, n. 21537).
Brevi cenni sull’applicazione ai contratti collettivi della disciplina civilistica in materia di recesso
In assenza di una disciplina specifica, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate sulla possibilità di applicare al contratto collettivo di diritto comune la disciplina codicistica (Libro I, titolo I, capo III del codice civile), concepita per i contratti collettivi corporativi.
In ragione delle evidenti differenze sostanziali e strutturali tra i contratti corporativi e i contratti collettivi post-corporativi, l’orientamento dominante ha escluso per questi ultimi l’operatività delle regole dettate dal codice civile, ad oggi ritenute implicitamente abrogate; in particolare, i giudici escludono l’applicazione del principio di ultrattività sancito dall’art. 2074 c.c., in quanto lesivo della libertà sindacale garantita dall’art. 39, comma 1, Cost. (cfr. Cass. 31 ottobre 2013, n. 24575).
All’esito di una lunga indagine, la Suprema Corte ha sostenuto l’applicazione della disciplina civilistica del contratto in generale al contratto collettivo post-corporativo e, conseguentemente, delle disposizioni civilistiche sul recesso dal contratto di durata che, alla luce di un’interpretazione meno rigida degli artt. 1372 e 1373 c.c., rispetto a quella originaria, ammettono la possibilità delle parti contraenti di recedere unilateralmente dai contratti senza determinazione di durata, anche nei casi in cui non sia espressamente previsto dalla legge o stabilito convenzionalmente dalle parti.
Il principio generale di libera recedibilità dai contratti di durata privi di un termine finale è frutto di un’elaborazione dalla dottrina e dalla giurisprudenza che affonda le radici in alcuni principi di ordine pubblico; tra questi, meritano menzione i principi i) dell’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui (o, di converso, della temporaneità dei vincoli obbligatori), ii) della necessaria determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto soddisfatta con l’apposizione di un termine, iii) della buona fede nell’esecuzione dei contratti.
Recesso o disdetta dal contratto collettivo post-corporativo e durata del contratto
Sebbene talvolta intesi come sovrapponibili dalla giurisprudenza e, ancor prima, all’interno dello stesso codice civile, recesso e disdetta sono due istituti giuridici che si distinguono in punto di funzione ed effetti: i) il recesso è causa estintiva di un rapporto di durata (per giusta causa ex art. 2119 c.c. nei contratti a termine); ii) la disdetta, invece, che opera esclusivamente nell’ambito dei contratti a tempo determinato, è un atto che consente di interrompere il rinnovo automatico di un vincolo negoziale.
Ciò premesso, si segnala che, relativamente alla contrattazione collettiva, così come nella disciplina del contratto in generale, i presupposti per l’esercizio del diritto di recesso variano in base alla previsione o meno della durata del contratto.
Con riferimento ai contratti collettivi a tempo indeterminato, ovvero privi di un termine di efficacia prestabilito, un diffuso orientamento giurisprudenziale ha riconosciuto in capo alle parti stipulanti il contratto la facoltà di recesso unilaterale anche in assenza di un’esplicita previsione legislativa ovvero convenzionale, al fine di evitare la perpetuità del vincolo contrattuale, la quale vanificherebbe la funzione sociale della contrattazione collettiva di ricerca di un equilibrio tra le esigenze delle parti sociali, anche sulla scorta di una realtà socio-economica in continua evoluzione (cfr. Cass. 20 agosto 2019, n. 21537; Cass. 11 maggio 2022, n. 14961).
Fermo restando quanto sinora osservato, nella prassi sindacale italiana, i contratti collettivi nazionali – e generalmente anche gli accordi aziendali – hanno una durata predefinita: a tale proposito, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che i contratti collettivi a termine cessino i loro effetti con lo spirare del termine apposto, a meno che gli stessi non contengano una clausola di rinnovo automatico, che può essere impedito con l’esercizio della disdetta. Trattasi delle clausole di ultrattività di natura pattizia, definite dalla dottrina clausole «di ultima generazione» (così M. FORLIVESI, Sul recesso dal contratto collettivo tra diritto civile e ordinamento intersindacale, in RIDL, 2014, n. 2, p. 421 ss., a commento di Cass. 31 ottobre 2013, n. 24575).
In altre parole, la Corte Suprema non ritiene legittimo il recesso ante tempus dal contratto collettivo a termine, in quanto tale ipotesi verrebbe a determinare uno squilibrio tra le posizioni delle parti contraenti. Tale principio si applica anche nel caso in cui il datore di lavoro si dissoci dall’associazione datoriale di appartenenza (cfr. la già richiamata Cass. 20 agosto 2019, n. 21537).
Recesso datoriale e ultrattività convenzionale del contratto collettivo
Alla luce delle precedenti considerazioni, si osserva che il datore di lavoro mai è legittimato a recedere unilateralmente – ante tempus – dal contratto collettivo nazionale applicato, neppure nelle ipotesi in cui receda dal rapporto associativo con l’associazione datoriale, oppure offra un congruo termine di preavviso, ovvero adduca l’eccessiva onerosità ex art. 1467 c.c., correlata ad una specifica situazione di difficoltà economica; di converso, nel caso di accordo collettivo aziendale privo di un limite di durata, il datore di lavoro è legittimato a recedere unilateralmente e ad nutum (cfr. Cass. 19 aprile 2011, n. 8994).
Ne consegue che il datore di lavoro resta obbligato ad applicare il CCNL di appartenenza sino al termine di scadenza previsto e, qualora intenda liberarsi da tale vincolo al fine di adottare un diverso contratto collettivo, oltre ad attendere lo spirare del termine, dovrà rimuovere la situazione giuridica costitutiva dell’obbligo in oggetto, che possiamo individuare, congiuntamente o disgiuntamente: i) nell’adesione all’associazione datoriale firmataria, ii) nel richiamo al CCNL contenuto nel contratto collettivo aziendale, iii) nel rinvio al CCNL previsto nel contratto di lavoro ovvero nel comportamento concludente datoriale di conformarsi alla disciplina del CCNL.
Chiarito questo principio, che costituisce un approdo giurisprudenziale consolidato, passiamo ad un’analisi più di dettaglio della citata sentenza del Tribunale di Vicenza e, prima ancora, del decreto opposto, emesso dal medesimo Tribunale all’esito di una procedura ex art. 28 St. lav.
Tali decisioni hanno affrontato una vicenda riguardante un caso in cui il datore di lavoro, non iscritto all’associazione datoriale di categoria, ha disapplicato il CCNL di settore, scaduto, contenente una clausola di ultrattività, che prevedeva l’estensione della relativa durata ed efficacia anche a seguito della scadenza e sino alla sottoscrizione di un successivo contratto (quasi a riproporre il citato art. 2074 c.c., implicitamente abrogato).
Secondo un condivisibile orientamento, tali clausole trasformano il contratto collettivo in un accordo a tempo indeterminato, dal quale è quindi possibile recedere in qualsiasi momento (cfr. Cass. 30 maggio 2005, n. 11325).
Le pronunce citate sembrano, tuttavia, allontanarsi da questo indirizzo, spostando l’opposto orientamento giurisprudenziale (cfr. ex multis, Cass. 20 agosto 2019, n. 21537).
Con decreto del 23 marzo 2022, il Tribunale di Vicenza ha dichiarato la natura antisindacale della condotta datoriale consistita nella disapplicazione del CCNL di settore, – scaduto nel 2019, prorogato con un’ipotesi di accordo del 2021, sino al 2023, per la sottoscrizione del nuovo contratto – e nella sostituzione di quest’ultimo con altro CCNL.
Il Giudice della prima fase ha dapprima affrontato la questione attinente all’applicazione del CCNL per fatti concludenti, richiamando un consolidato principio giurisprudenziale secondo cui «l’adesione ad un contratto collettivo può essere anche tacita e per fatti concludenti, ravvisabili nella concreta applicazione delle relative clausole» (cfr. Cass. 18 settembre 2015, n. 18408).
Alla luce di tale indirizzo, l’organo giudicante, partendo dall’analisi della documentazione prodotta in giudizio (tra cui i procedimenti disciplinari e il contratto integrativo aziendale vigente) volta ad indagare la concreta applicazione della disciplina contrattuale collettiva ai singoli rapporti di lavoro in questione, è giunto ad affermare che una delle due società convenute ha effettivamente applicato il CCNL di settore, al quale ha aderito volontariamente seppur senza l’iscrizione all’associazione datoriale di categoria.
Proseguendo nel ragionamento logico-giuridico su cui si fonda la decisione in esame, il giudice, sulla base di un indirizzo che trova diversi riscontri nella giurisprudenza, giunge ad affermare la vincolatività della previsione di ultrattività, sia per le parti contraenti sia per il datore di lavoro.
Il profilo di novità delle motivazioni addotte nella decisione non risiede tanto nel principio richiamato dal Giudice per spiegare le ragioni su cui si fondano le conclusioni, ma nel fatto che l’applicazione del CCNL per comportamenti concludenti determina altresì il rispetto delle clausole riguardanti l’efficacia temporale delle previsioni contrattuali, ovvero le clausole riguardanti la durata del CCNL (Sul punto, G. Piglialarmi, Applicazione del ccnl per comportamenti concludenti: siamo a una svolta? Brevi riflessioni critiche a margine di un decreto, in RGL, n. 3, 2022, 2 ss.).
A seguito della richiesta di revisione del decreto, con la recente sentenza del 22 novembre 2022, il Tribunale di Vicenza ha ribadito l’antisindacalità della condotta datoriale consistita nel disconoscimento della vincolatività del primo CCNL oltre la sua scadenza, in ragione dell’apposta clausola di ultrattività, e nel conseguente impedimento dell’esercizio dei diritti sindacali.
Nonostante la dottrina maggioritaria abbia ricondotto il contratto collettivo nell’ambito del diritto comune dei contratti, senza dimenticare le peculiarità derivanti dall’inserimento dell’atto negoziale in parola all’interno del sistema sindacale, il Giudice ha affermato che il contratto collettivo, «che è e rimane […] un contratto di diritto privato, obbedisce (anche) a regole non comuni, quelle proprie dell’ordinamento intersindacale”, evocando così la notissima ricostruzione di Gino Giugni (il riferimento è ovviamente a G. Giugni, Introduzione allo studio della autonomia collettiva, Giuffrè, 1960).
Forte dell’autorevole appiglio, il giudice prosegue affermando che la disdetta di un contratto collettivo, nell’ambito del sistema di relazioni industriali, ha la sola funzione di attivare il procedimento del rinnovo e che il datore di lavoro non gioca alcun ruolo rispetto a questo meccanismo; tuttavia, in virtù dell’impegno preso sia nei confronti dei lavoratori che delle OO.SS. firmatarie il CCNL, quest’ultimo è vincolato al rispetto delle regole contenute nel contratto collettivo senza la possibilità di liberarsi ante tempus da tale obbligo neppure «nelle more del rinnovo di quel contratto pacificamente scaduto ma i cui effetti […] si continuavano a produrre per operando quel regime di ultrattività convenzionale a cui la società ha inevitabilmente prestato adesione.
Relativamente a quest’ultima questione, alcune autorevoli voci ritengono che l’impossibilità per il datore di lavoro di disapplicare un CCNL per l’effetto della clausola di ultrattività, possa generare delle criticità pratiche piuttosto significative, in quanto i datori di lavoro si troverebbero in una sorta di “gabbia contrattuale”, che crea una situazione senza fine certa, in contrasto con uno dei principi generali di ordine pubblico, ossia quello dell’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui. (sul punto, A. Tursi, La trappola dell’ultrattività: dal contratto collettivo a tempo determinato, scaduto e ultrattivo, non è possibile recedere? (prime note su Cass. n. 3671 e 3672/2021), in LDE, n. 2, 2021, 1 ss.).
Come soluzione a questa “gabbia contrattuale”, il mondo delle relazioni industriali ci offre uno strumento importante, ossia quello dei c.d. accordi di armonizzazione, che possono essere stipulati tra il datore di lavoro, le organizzazioni sindacali firmatarie del CCNL che si intende disapplicare e quelle firmatarie del CCNL sostituto (si veda G. Piglialarmi, Come entrare ed uscire da un sistema contrattuale: a proposito dei rischi e delle modalità di disapplicazione del CCNL, in DRI, n. 2, 2022, 606 ss.).
In definitiva, si può affermare che una simile soluzione è da ritenersi una vera e propria “via d’uscita” per il datore di lavoro, che abbia un’effettiva esigenza di sostituire il CCNL applicato; in altre parole, gli consentirebbe di effettuare tale passaggio senza incorrere in eventuali accertamenti di condotte antisindacali, garantendo altresì, grazie ad funzionale dialogo con le organizzazione sindacali coinvolte, un bilanciamento degli interessi organizzativi datoriali con le esigenze di tutela dei diritti di ciascun lavoratore.
Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena