Contro il “rischio caldo” e “a difesa del lavoro” arrivano (di nuovo) le Regioni

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Bollettino ADAPT 22 luglio 2024 n. 29
 
La notizia della recente ordinanza della giunta della Regione Campania – adottata l’11 luglio 2024, che impone la sospensione delle attività lavorative nei settori agricoli, edili ed affini in condizioni di esposizione prolungata al sole, dalle ore 12:30 alle ore 16:00 in alcune aree preventivamente identificate – non è certamente un caso isolato. Anche la Regione Sicilia (17 luglio 2024), la Regione Abruzzo (18 luglio 2024) e la Regione Sardegna (18 luglio 2024) hanno adottato le stesse misure di prevenzione, allo scopo di tutelare i lavoratori che operano in condizioni climatiche piuttosto estreme.
 
Questi provvedimenti suscitano più di una considerazione rispetto ad una tendenza che vede, da qualche tempo, costantemente regioni ed enti locali intervenire e prendere posizione sulla materia del lavoro. È già accaduto, infatti, che molte amministrazioni comunali abbiano adottato delle delibere per stabilire che nell’ambito degli appalti e delle concessioni pubbliche, gli operatori economici debbano riconoscere un salario orario minimo ai lavoratori e alle lavoratrici di almeno 9 euro. Abbiamo già spiegato i limiti tecnici e pratici di questi provvedimenti (G. Piglialarmi, Retribuzione e appalti pubblici: alcune considerazioni sulla recente “rivolta” dei Comuni, in Bollettino ADAPT 25 marzo 2024, n. 12), che rischiano di tradursi in un fattore di complicazione più che in uno strumento di tutela (M. Tiraboschi, G. Piglialarmi, Salario minimo: la piccola rivolta e la grande ipocrisia dei Comuni, in Bollettino ADAPT 8 aprile 2024, n. 14). Ma tralasciando per ora la questione del salario minimo orario – che continua a restare al centro delle iniziative dei singoli comuni, come conferma la recente delibera adottata dal Comune di Napoli – è opportuno concentrare la nostra attenzione su queste recenti misure regionali che, se dal punto di vista giuridico appaiono del tutto legittime, non sembrano però convincere nel merito.
 
Sotto il profilo tecnico-giuridico, non può essere rilevato alcunché posto che l’art. 117, comma 3 Cost. include tra le “materie concorrenti” in cui Stato e regioni possono legiferare anche la “tutela e la sicurezza del lavoro”. Le recenti ordinanze, dunque, si pongono nel solco tracciato dalla Carta Costituzionale. Ciò che invece desta qualche perplessità riguarda il merito delle misure adottate.
 
Anzitutto, è bene sottolineare che le suddette ordinanze non introducono alcun “nuovo” obbligo di protezione o di tutela per i lavoratori, posto che il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., deve sempre garantire “nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Misure che certamente devono essere idonee a tutelare il lavoratore anche dal c.d. rischio da stress termico, la cui insorgenza pure è legata alle elevate temperature estive. In altri termini, l’ordinamento già contempla l’obbligo di predisporre delle misure di tutela in favore dei lavoratori, la cui adozione (obbligatoria) spetta al datore di lavoro e in assenza delle quali il lavoratore potrebbe legittimamente rifiutarsi di svolgere la prestazione (art. 1460 cod. civ.). Sotto questo profilo, dunque, le ordinanze vanno semmai a rafforzare quell’obbligo di prevenzione già posto dal Codice Civile in capo all’imprenditore, poiché la violazione comporta l’applicazione dell’art. 650 cod. pen.
 
L’obbligo di protezione contro lo shock termico, però, viene rafforzato attraverso l’introduzione di un divieto generalizzato di svolgere l’attività lavorativa, senza lasciare spazio a soluzioni alternative al blocco radicale dell’attività, che pure potrebbero essere praticate, anche attraverso la leva della contrattazione collettiva (prevedendo, ad esempio, dei regimi orari ad hoc oppure prevedendo eccezionali cambi di mansione per proseguire l’attività lavorativa in luoghi e spazi non esposti al rischio in questione o, ancora, per le imprese con più siti, prevedendo il cambio del luogo di lavoro). In altri termini, alla luce di queste ordinanze, l’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 cod. civ. viene “assorbito” da una misura di carattere precauzionale, eliminando così alla radice la possibilità di bilanciare le esigenze di tutela dei lavoratori con la libertà d’impresa, pure costituzionalmente tutelata (art. 41 Cost.). Il che espone i provvedimenti regionali a non pochi dubbi di costituzionalità.
 
Inoltre, non si comprende perché le Regioni abbiano circoscritto un provvedimento di tale portata ai soli settori agricolo, edili e affini quando in realtà il novero dei settori che sono esposti al rischio da stress termico per elevata e prolungata esposizione al sole è molto più ampio. Manca, infatti, il comparto estrattivo, il comparto marittimo e le attività balneari (come evidenziato nella Nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro del 13 luglio 2023, n. 5056) e anche il food delivery. Proprio in relazione a quest’ultimo settore, il Tribunale di Palermo, con ordinanza del 18 agosto 2022, aveva condannato una società per non aver predisposto adeguate misure di protezione nei confronti dei riders, impegnati a consegnare il cibo sotto il sole rovente (F. Capponi, La prevenzione del rischio lavorativo da esposizione a temperature elevate: il caso dei rider sotto la lente dei giudici, in Bollettino ADAPT 5 settembre 2022, n. 29), violando così l’art. 2087 cod. civ. e il d.lgs. n. 81 del 2008. Il giudice palermitano aveva indicato nell’ordinanza specifiche misure che la società avrebbe dovuto adottare per tutelare i lavoratori dallo shock termico (consegna di un contenitore termico contenente acqua potabile in misura non inferiore a un litro per ogni ora di esposizione ai raggi solari, dotazione di integratori di sali minerali, crema solare ad alta protezione e salviette rinfrescanti). Si tratta di misure che certamente non sono andate nella direzione di comprimere l’attività d’impresa ma di tutelare in modo adeguato il prestatore.
 
In altri termini, buone pratiche e precedenti utili non mancano. Eppure, le Regioni pare abbiano preferito la strada più semplice. A questo punto, occorre chiedersi se sia ancora opportuno che gli enti locali, con un approccio eccessivamente “dirigista” e “precauzionale”, continuino a fronteggiare l’emergenza derivante dalle elevate temperature estive con misure che presentano non poche criticità – a partire dall’impossibilità di poter tutelare i lavoratori con misure alternative, comprimendo così l’art. 41 Cost. – oppure se non sia il caso che le parti sociali, quali soggetti più prossimi alle questioni riguardanti il lavoro, si riapproprino della questione e governino efficacemente, attraverso la leva contrattuale, le questioni organizzative e di tutela della persona che il rischio da stress termico comporta.
 
Giovanni Piglialarmi

Ricercatore in diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

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