Bollettino speciale ADAPT 11 dicembre 2024, n. 7
Se c’è una cosa che unisce le sigle sindacali e le associazioni datoriali “storiche”, oggi, è sicuramente la volontà di ripensare la rappresentanza e, negli ultimi giorni, sembra anche che ci siano stati dei passi avanti in tal senso. Se da un lato Cgil, Cisl, Uil, Confindustria, Confcommercio, Abi, Ania, Confcooperative e Legacoop vogliono avviare una discussione su come tutelare lavoratori, lavoratrici e datori dai contratti pirata ed evitare che dilaghi oltremodo il dumping salariale e contrattuale, non si può dire che il correttivo del codice degli appalti pubblici approvato il 21 ottobre 2024 in Consiglio dei Ministri avesse lo stesso obiettivo. È questa, in breve, la posizione dei sindacati confederali che emerge dalle audizioni informali presso la VIII Commissione della Camera dei deputati.
“Lo schema di riforma del Codice degli Appalti proposto dal Governo rappresenta un netto passo indietro rispetto al codice precedente” scrive la Uil. Infatti, se nella legge n. 78/2022 e nello schema del Codice dei contratti pubblici erano state accolte importanti richieste delle parti sociali, come l’esclusione dei costi della manodopera dai ribassi e l’obbligatorietà dell’inserimento delle clausole sociali nei bandi di gara, la riforma sembra voglia far venir meno alcuni dei punti cardine per garantire e promuovere condizioni di lavoro dignitose per le lavoratrici e i lavoratori.
Le questioni più spinose riguardano le modalità per individuare il contratto collettivo applicabile e la verifica dell’equivalenza. Le modifiche all’art. 11 (commi 2 e 4) ad opera del nuovo Allegato I.01 preoccupano i sindacati perché, se da un lato si mantiene la facoltà per la stazione appaltante di individuare il contratto collettivo applicabile in base all’oggetto dell’appalto o della concessione, con la riforma si abroga la possibilità per la stazione appaltante di imporre un determinato contratto collettivo da applicare quale requisito per poter partecipare al bando, aprendo alla possibilità di utilizzare altri CCNL. I due criteri previsti al momento dalla legge per l’identificazione del CCNL da parte della stazione appaltante sono l’oggetto dell’appalto e la condizione di rappresentatività. Sul primo punto, Cgil e Uil contestano il collegamento fra l’oggetto dell’appalto e il codice Ateco dell’impresa poiché il collegamento dovrebbe avvenire non con l’attività di impresa ma con il CCNL che esse applicano per verificare se l’attività oggetto di appalto rientri nel campo di applicazione di quest’ultimo. Sul secondo criterio, invece, i tre sindacati sono compatti nel ritenere che fra i criteri di rappresentatività comparata non sia opportuno il riferimento al numero di contratti collettivi sottoscritti poiché “di per sé non indicativi di nulla” (Cgil) e anzi, la proliferazione di nuovi attori che firmano un ampio numero di CCNL “spesso non riflettono le dinamiche del genuino fenomeno sindacale” (Cisl). Quanto alla mera presenza al Cnel, tale criterio “non è indicatore di rappresentanza certa” (Cgil). La Cisl, inoltre, chiede che sia il Cnel ad assumere la veste di soggetto istituzionale di riferimento per le stazioni appaltanti ai fini della corretta individuazione del CCNL da applicare.
Un ulteriore punto critico riguarda il riferimento all’equivalenza se in fase di gara un operatore economico partecipa con altro CCNL. In questo caso, ci può essere la “presunzione di equivalenza” o una valutazione caso per caso che la stazione appaltante deve compiere, per verificare che vi sia il rispetto delle tutele economiche e normative. L’art. 3 introduce la presunzione di equivalenza delle tutele nel caso trovi applicazione il “contratto collettivo di lavoro corrispondente alla dimensione o alla natura giuridica dell’impresa”. Questa disposizione viene vista con favore dalla Cisl, sebbene nella nota faccia riferimento solo alle condizioni di equivalenza nel contenuto economico e normativo, e non ai due criteri di dimensione e natura dell’impresa. Chi si schiera contro i criteri di dimensione e natura giuridica dell’impresa (cooperativa sociale, impresa artigiana, pmi) sono Cgil e Uil che ritengono la norma “problematica” trovando i criteri non adatti per verificare (e presumere) se vi sia la concreta equivalenza nelle tutele economiche e normative, ad esempio per l’aleatorietà del criterio dimensionale (numero di addetti o volume economico?).
L’art. 4 si occupa dell’ipotesi in cui venga indicato un contratto collettivo diverso da quello indicato nel bando e la stazione appaltante debba verificarne l’equivalenza sulla base degli elementi forniti dall’operatore economico circa le tutele economiche (retribuzione, indennità …) e normative (straordinari, malattia, maternità…). In questa norma si può leggere una definitiva lontananza di vedute tra il legislatore e le parti sociali: al comma 4 dell’art. 4, infatti, viene previsto che sussista l’equivalenza delle tutele nel caso in cui il valore economico complessivo delle componenti fisse della retribuzione globale annua (minimi tabellari, indennità di contingenza, EDR, mensilità aggiuntive e ulteriori indennità) sia “almeno pari” a quello del contratto collettivo indicato nel bando di gara o nell’invito e quando gli scostamenti sulle tutele normative siano “marginali”. Quello che si legge tra le righe, che bene viene invece esplicitato dalla nota della Cisl, è una svalutazione delle tutele normative quando invece “sappiamo bene che il valore del contratto non è solo la parte economica ma anche quella normativa” (Cisl), considerando anche che la legge delega 78/2022 “ha sempre fatto riferimento ad un principio rigido di tutele economiche e normative connesse all’applicazione del CCNL individuato” (Cgil). Inoltre, le parti sociali propongono di modificare l’art. 4, co. 4 e 5, per rafforzare la partecipazione delle stesse organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nella valutazione dell’equivalenza.
In aggiunta alle criticità relative alla misurazione della rappresentatività, le osservazioni presentate dalla Cgil individuano nel testo del decreto correttivo altri 4 nuclei problematici: 1) la riduzione della cogenza di alcune norme a tutela dei lavoratori; 2) un’eccesiva partecipazione, nella fase esecutiva, delle imprese piccole e piccolissime; 3) una riduzione degli strumenti a garanzia della massima trasparenza in fase di progettazione e in fase esecutiva; 4) un significativo allargamento alla finanza di progetto in partenariato pubblico-privato che potrebbe aprire ad una stagione di “nuova privatizzazione” di infrastrutture secondarie.
Sulla partecipazione di imprese piccole e piccolissime, la modifica dell’art. 119 stabilisce che in caso di contratti di subappalto, questi devono essere firmati almeno per il 20% delle prestazioni subappaltabili con piccole e medie imprese, sollevando non pochi dubbi sia sul significato di “prestazioni subappaltabili” (in relazione agli importi o alla quantità?), sia all’apertura del mercato degli appalti pubblici anche a piccolissime realtà. Ancor più preoccupante è la modifica del comma 12 che permetterebbe al subappaltatore di applicare non più solo ed esclusivamente il contratto collettivo medesimo a quello applicato dal contraente principale ma anche uno diverso, purché “garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello applicato dall’appaltatore”, depotenziando in modo ingente la norma precedente e aprendo alla facoltà per il subappaltatore di applicare un CCNL diverso. Nella relazione del Governo, il passaggio sul punto “rischia di complicare e confondere ulteriormente le tutele nella catena di appalto” e “l’applicazione di diverse contrattualistiche nei relativi sub appalti, dopo essere state vagliate in prima istanza dalla stazione appaltante, rischia di vanificare lo sforzo qualitativo richiesto”, come evidenzia la Cisl.
Quelle sopra riassunte sono solo alcune delle molte critiche e richieste di modifica che Cgil, Cisl e Uil hanno presentato in commissione a seguito della proposta di riforma del Codice degli appalti pubblici in molti dei suoi articoli ed allegati.
Le parti sociali sono preoccupate perché con queste modifiche si svalorizzano i contratti sottoscritti dalle sigle sindacali maggiormente rappresentative, optando per una apertura a contratti pirata e al dumping contrattuale. Si tratta di un duro colpo alle relazioni industriali “genuine” e alla tutela dei lavoratori e del salario giusto che, fatta passare come una semplificazione della procedura, rischia di tradursi in un mero perseguimento dell’offerta economica più vantaggiosa, a tutto vantaggio di fenomeni di dumping e sindacati poco rappresentativi.
Federica Chirico
Apprendista di ricerca ADAPT