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Bollettino ADAPT 20 febbraio 2023, n. 7
Un Paese moderno, che giustamente discute a grande voce e che poi si divide sulle grandi questioni economiche e sociali che ruotano attorno ai problemi del lavoro, dovrebbe disporre di un sistema per il costante monitoraggio e per la valutazione d’impatto delle riforme del mercato del lavoro. Non è questo, purtroppo, il caso dell’Italia che si presenta all’appuntamento dei venti anni della legge 14 febbraio 2003, n. 30 senza poter disporre di un bilancio istituzionale e condiviso (quantomeno con riferimento ai parametri e ai criteri della valutazione) di questa riforma. Né più né meno di quanto già accaduto lo scorso anno per i venticinque anni della legge 24 giugno 1997, n. 196 con l’aggravante, in questo caso, che parliamo di una legge ancora in vigore per interi (e non marginali) ambiti della disciplina giuridica del mercato del lavoro.
Già queste brevi considerazioni sono comunque sufficienti a stilare un primo bilancio di tipo “culturale” – e in senso lato anche “politico” – della legge Biagi perché le opinioni manifestate venti anni fa nel dibattito pubblico attorno a questa legge, spesso in termini violenti e distruttivi, sono sostanzialmente rimaste immutate nel tempo. Lo documenta un recente studio di Francesco Nespoli, un giovane e brillante studioso (uno dei pochi in Italia) della comunicazione politica e sindacale sui temi del lavoro. Così che se per quasi una metà degli studiosi e dei pratici la legge 30 ha il merito di avere avviato l’auspicato percorso di modernizzazione del mercato del lavoro italiano, per una altra metà abbondante è stata questa la legge ad avere innescato, dopo le timide aperture della legge Treu, un potente processo di erosione dello statuto protettivo del lavoro. Di modo che non può poi sorprendere la circostanza che, al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, la legge Biagi sia oggi ritenuta l’atto fondativo di una politica liberistica finalizzata alla (ri)mercificazione del lavoro: lo “certificherebbe” anche solo una banalissima ricerca su Google che, alla domanda “Chi ha inventato il precariato?”, porta direttamente a Marco Biagi e alla legge che porta il suo nome (vedi F. Nespoli, Una riforma tra comunicazione politica e comunicazione sindacale, in E. Massagli, S. Spattini, Progettare per modernizzare, ADAPT University Press, 2023, pp. 42-68). Scontato è allora dividersi, ancora oggi, su ogni proposta o progetto di riforma delle leggi del lavoro se poi, a certificarne l’efficacia e l’impatto sul mercato del lavoro, la parola finale è affidata al variegato popolo di internet e dei social network e non ad una istituzione chiamata a rendicontarne, sulla base di criteri scientifici e parametri condivisi, l’effettivo funzionamento.
Eppure venti anni dovrebbero rappresentare un lasso di tempo adeguato, perché lontano dalle tensioni e dalle contese del tempo, per un contribuire a un confronto serio e intellettualmente onesto tra quanti, pur nella diversità di opinioni e prospettive, sono realmente interessati a cercare soluzioni utili a governare i sempre più gravi e complessi problemi del mercato del lavoro in un contesto storico e sociale dove i lavoratori e le stesse imprese manifestano sempre più frequentemente segni di insoddisfazione se non di vera e propria sofferenza. Una cosa comunque è certa almeno a parere di chi scrive. Pare infatti sufficiente prendere a riferimento le leggi che si sono via via succedute, dalla riforma Fornero al Jobs Act, per rendersi conto che il progetto della legge Biagi, giusto o sbagliato che fosse, non rispondeva minimamente a una istanza di liberalizzazione del nostro mercato del lavoro. Queste leggi che si sono poi succedute, infatti, non sarebbero state oggettivamente possibili se davvero la legge 30 avesse provveduto a spazzare via, in poche pagine di Gazzetta Ufficiale, le principali conquiste sindacali e del lavoro degli ultimi decenni. Il progetto era se mai quello di una profonda ri-regolazione del vecchio e malfunzionante apparato protettivo del lavoro, in termini di incremento degli allora bassissimi tassi di occupazione regolare, di contrasto al lavoro sommerso e al precariato diffuso di cui le cococo erano la principale manifestazione. Mentre del tutto trascurate (e anzi ampiamente boicottare assieme a parti indubbiamente più opinabili e controverse della riforma) sono state peraltro le innovative misure contenute nella legge Biagi che riguardavano le politiche attive del lavoro, l’apprendistato duale, il placement promosso da scuole e università, la bilateralità virtuosa, l’inserimento dei gruppi svantaggiati e più vulnerabili del mercato del lavoro.
Tutto questo non è ovviamente sufficiente, se si vuole essere intellettualmente onesti, per negare alcuni punti critici di questa riforma, come in effetti emerge anche dal bilancio in chiaro e scuro che è fornito oggi da alcuni dei più autorevoli Maestri della materia che hanno vissuto da protagonisti quell’epoca (si vedano le diverse opinioni raccolte in M. Tiraboschi, Venti anni di legge Biagi, ADAPT University Press, 2023). Lo stesso Marco Biagi immaginava la legge a cui aveva lavorato e per la quale ha perso la vita come a una sorta di ponte per iniziare ad avvicinarci a un nuovo e più moderno “Statuto di tutti i lavori”, ampiamente enunciato nel libro Bianco sul mercato del lavoro dell’ottobre 2001, consapevole di tutti i limiti di questa prima proposta.
In una sede importante e influente come quella di Guida al lavoro merita tuttavia sviluppare una ultima e non banale considerazione su questa legge. Era stato lo stesso Marco Biagi a scrivere, rispetto alla prima tappa della riforma che era rappresentata dalla decretazione del 2001 sul contratto a termine, che, “sul piano pratico”, tuttavia, “la vera riforma” avrebbe dovuto essere “non normativa ma culturale, proprio a partire dallo spirito con cui si andranno a interpretare le norme del decreto che qui si commenta”. La modernizzazione del mercato del lavoro è infatti “un processo particolarmente complesso e delicato che richiede da parte di tutti quell’atteggiamento positivo nei confronti dei cambiamenti che da tempo ci viene richiesto dalle istituzioni comunitarie. Ciò che viene oggi richiesto non solo agli operatori pratici ma anche alle parti sociali e agli studiosi del diritto del lavoro è quello di provare ad abbandonare una cultura (anche giurisprudenziale) costruita sul sospetto e sulla diffidenza” (M. Biagi, La nuova disciplina del lavoro a termine: prima (controversa) tappa del processo di modernizzazione del mercato del lavoro italiano, in L. Montuschi, M. Tiraboschi, T. Treu, Marco Biagi, un giurista progettuale – Scritti scelti, Giuffrè, 2003, qui p. 49).
Ebbene, se pensiamo alla grande scommessa della legge Biagi rappresentata dal cosiddetto “lavoro per progetti”, ampiamente anticipatorio del moderno smart working, o anche a innovazioni tuttora vigenti come la certificazione dei contratti di lavoro resta forte il retropensiero – e con esso anche il rammarico – che almeno una parte della riforma non abbia funzionato non tanto per difetti di progettazione quanto per una applicazione non corretta e in parte distorta nella prassi resa del resto particolarmente problematica a causa della netta opposizione alle novità di una parte del mondo sindacale (qualcuno ricorderà i “pre-contratti” promossi dalla Fiom-Cgil che ponevano come pregiudiziale per ogni intesa sindacale la disapplicazione della legge Biagi nelle aziende interessate).
Quanto basta per consentire a ciascuno di noi di riconoscere i pregi o i limiti della legge Biagi, come di ogni altra riforma del mercato del lavoro, ma anche per maturare una maggiore e più piena consapevolezza della grande responsabilità che compete agli operatori pratici, ai funzionari sindacali (del lavoro come d’impresa) e ai consulenti legali da cui spesso dipende il successo o meno di ogni progetto di miglioramento del nostro mercato del lavoro.
Michele Tiraboschi
Università di Modena e Reggio Emilia
Coordinatore scientifico ADAPT
@MicheTiraboschi
*Pubblicato anche su Guida al Lavoro n. 7, Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2023