Costituzione e nuovi cittadini

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Bollettino ADAPT 2 settembre 2024, n. 30
 
Con la consueta severità di analisi (e di giudizio) il prof. Michele Tiraboschi, coordinatore scientifico ADAPT, rispondendo alle domande poste da varie testate giornalistiche (tra esse: il Gazzettino di Venezia, il Messaggero e altre) ha spiegato (e motivato) che il fenomeno dell’immigrazione in Italia non va considerato buono o cattivo, ma semplicemente necessario a mantenere i costi di quello stato sociale cui siamo abituati. Che vorremmo forse migliorare, o quantomeno mantenere.
 
A questo può concorrere il riconoscimento della cittadinanza ai «nuovi italiani» essendo evidente che lo stesso si sostiene solo a fronte di maggiori nascite, aumento della forza lavoro, italiana o straniera, e politiche di integrazione che convincano i giovani italiani a restare ed i figli di immigrati nati sul territorio italiano a scommettere su un futuro migliore nel nostro Paese.
 
Si obietta che la cittadinanza, cui il nostro ordinamento giuridico ricollega la pienezza dei diritti civili e politici, è già normata da una legge (l. n. 91/1992) che ne prevede l’acquisizione automatica iure sanguinis, per adozione, per aver ascendenti italiani in linea retta italiani emigrati all’estero e per matrimonio tra italiani e stranieri. Si obietta anche , ancora, che la cittadinanza è riconosciuta anche per effetto della permanenza nel territorio dello Stato da almeno dieci anni, ridotti a quattro se il richiedente è cittadino comunitario. Si osserva infine che la cittadinanza è acquisita, su richiesta, anche dai nati da genitori stranieri residenti in Italia che hanno compiuto i 18 anni, conoscono la lingua e non abbiano “demeritato” il nuovo status. Su quest’ultima categoria si concentra il dibattito politico di questa calda estate, che contrappone chi ritiene che allo ius sanguinis vada equiparato lo ius soli, chi sostiene che il 18° anno possa essere anticipato in presenza di uno o due cicli continuativi di studi in Italia (cd “ius culturae”) e chi si oppone a qualunque modifica dell’esistente.
 
Il fronte che sostiene lo “ius soli” non chiarisce se la ventilata riforma riguardi tutti i nati, anche casualmente, sul suolo italiano ovvero solo le “seconde generazioni” di giovani, nati in Italia da genitori stranieri già residenti in Italia. Il fronte che sostiene lo “ius culturae” ritiene che un percorso formativo scolastico (si ritiene a partire dalla scuola materna, altrimenti, a conti fatti, non avrebbe alcun senso) sia condizione sufficiente ad accelerare il riconoscimento della cittadinanza prima del diciottesimo anno. Il fronte più «conservatore», infine, ritiene che un allargamento delle ipotesi non sia in discussione e che la cittadinanza italiana vada anzitutto «meritata».
 
Fermo restando che tutte le ipotesi sono legittime, anche se spesso generiche ed immerse nella vaghezza (chi decide se un giovane merita o no la cittadinanza?), guardando l’insieme delle regole che già consentono l’acquisizione della cittadinanza italiana, si dovrebbe per onestà intellettuale ammettere che l’abbassamento del requisito dei 18 anni riguardi solo una parte, non prevalente, dei casi che ne consentono il riconoscimento. E che, nel complesso, i riconoscimenti in Italia sono, anno dopo anno, tra i più alti della media europea.
 
Ma i numeri, si sa, vanno letti tutti. E le singole ipotesi vanno verificate in concreto, punto per punto, alla luce di ciò che prevede la legge e, soprattutto, di ciò che avviene nella prassi. Prassi che, anche in tal caso, opera a favore di chi sostiene che un riconoscimento accelerato non serva, atteso che, nonostante la legge preveda un termine per il completamento della pratica di 24 mesi (prorogabile a 36) l’acquisizione della cittadinanza avviene in media entro 2 mesi dalla data della richiesta. Che, detto per inciso, appare un risultato sbalorditivo se si considera che per il rinnovo di un passaporto italiano ci vogliono almeno 6 mesi.
 
Tuttavia, a favore di chi ritiene che il riconoscimento vada accelerato, si evidenzia che ben 914.000 alunni senza cittadinanza italiana hanno frequentato le nostre scuole nell’anno 2022/2023. Un numero che, rapportato alla popolazione scolastica complessiva del medesimo periodo (rilevato nel mese di settembre 2023 dall’Ufficio Statistica del Ministero dell’Istruzione), rappresenta una percentuale di 1 giovane su 7 senza cittadinanza. Ed il numero è destinato a crescere.
 
Lo scambio di opinioni su diverse visioni del mondo e della società è (sarebbe) sempre utile, anche se la politica tende spesso ad occuparsi solo dei problemi del giorno dopo, con l’occhio attento alle proprie convenienze elettorali, e trascura la necessità di affrontare temi troppo complessi, che non portano (o fanno perdere) voti. Ma se si facesse un’indagine tra la gente per verificare se è importante conoscere verso quale strada sta andando il nostro Paese per programmare la vita propria e della famiglia, avremmo molte sorprese.
 
Il tema della cittadinanza, ad esempio, non è fine a sé stesso e non riguarda solo astratti obblighi di solidarietà, ma si inserisce in quello della natalità, della scuola, del lavoro, della salute e delle pensioni. Come sentenziava Anassagora: “tutto è in tutto”.  Buona parte delle resistenze è certamente attribuibile alle ansie ed alle paure, comprensibili perchè il «diverso da noi» spaventa.
 
Ma va detto tuttavia che buona parte di queste inquietudini sono frutto di una politica distratta e miope che «raccoglie» in mare i naufraghi, ma non li «accoglie» una volta sbarcati, lasciandoli in buona parte al loro destino, rendendoli spesso invisibili e, proprio per questo, pericolosi. Eppure la nostra Costituzione è molto chiara nel dettare le regole di convivenza e, se correttamente osservata – e quotidianamente praticata – sarebbe già sufficiente a rassicurare gli incerti ed a prevenire quel senso di insicurezza che avvolge un po’ tutti, ma soprattutto i più fragili.
 
Un esempio chiarisce meglio l’appunto: a fronte di un’art.3 della Costituzione che stabilisce «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», la legge 91/1992 stabilisce che «l’acquisto della cittadinanza è preclusa a seguito di condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice penale”, ovvero in caso di condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero per il caso di condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia. Ed è infine preclusa nel caso di sussistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica».
 
La stessa legge n. 91/1992 prevede che «il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona non presta […] giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato». La strada per ottenere la cittadinanza è dunque stretta, indipendentemente da ogni altra considerazione di merito. E non è garantita per sempre a nessuno.
 
Ma a rassicurarci sovviene anche dall’art. 2 della nostra Costituzione: «La Repubblica […] richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E questi doveri, senza eccezione alcuna, sono elencati, punto per punto, in altri articoli della nostra Costituzione: la difesa della Patria, l’obbligo di pagare le tasse, la fedeltà alla Repubblica, il rispetto per la dignità e la libertà individuale e collettiva, l’obbligo di assistenza dei congiunti, la solidarietà sociale, l’obbligo di istruzione fino al 16° anno.
 
Non basta? Se non basta allora è l’intero sistema va rivisto. A cominciare dal matrimonio con lo straniero che diventa automaticamente cittadino anche senza conoscere la nostra lingua, ai figli adottati all’estero che acquisiscono automaticamente la cittadinanza dei genitori italiani, ai cittadini comunitari che dopo quattro anni di permanenza in Italia la ottengono senza altri requisiti ed a tutti gli altri casi già sopra indicati. Nessuno dei quali, detto per inciso, prevede un ciclo di studi e di formazione scolastica per ottenerla.
 
Per essere tuttavia più concreti: alla sola manifattura italiana si stima che mancheranno circa 276.000 lavoratori nei prossimi 5 anni, per effetto dei pensionamenti (e, se vogliamo, di una politica scolastica del «giorno per giorno» che nel giro di 3 decenni ha creato uno stuolo di avvocati, pochi medici e un numero assolutamente inadeguato di artigiani: la vera forza economica di questo Paese).
 
Ben sapendo che la personalità dei giovani si forma soprattutto nei primi cicli scolastici, a chi dovremmo affidare la formazione tecnica ed umanistica dei nuovi italiani se non al Paese che da mille anni ha creato il «made in Italy»? E come trattenere questi giovani una volta educati e formati? Ecco dunque che premiare questi giovani con la cittadinanza diventa un premio anche per le loro stesse famiglie, che si sacrificano più delle altre mandandoli a scuola e scommettono sull’Italia per dare ad essi un futuro migliore.
 

Antonio Tarzia

ADAPT Professional Fellow

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