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Bollettino ADAPT 1 febbraio 2021, n. 4
Con l’intesa sottoscritta con le Organizzazioni Sindacali il 26 gennaio 2021, le imprese aderenti a Confcommercio ed a Confesercenti, rappresentanti il poliedrico comparto del Turismo (Federalberghi, Fipe, Fiavet, Faita, Assocamping, Assohotel, Assoviaggi, Fiba, Fiepet), ritrovando un momento unitario dopo la grande scissione del 2013 determinata dall’uscita di FIPE dal CCNL del Turismo, hanno chiesto alle Autorità Centrali e Locali l’inserimento degli addetti al settore tra le categorie prioritariamente destinatarie della vaccinazione, alla luce “dell’esigenza di tutela della attività che continuano ad assicurare il servizio nonostante l’esposizione al rischio”, auspicando al contempo “la più alta partecipazione possibile dei lavoratori occupati nel settore alla campagna vaccinale in corso” e concordando “di attivarsi tra gli stessi addetti per promuovere campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate alla vaccinazione contro SARS-COV-2/Covid-19”.
Prima di approdare ad alcune considerazioni sull’Accordo, è opportuno brevemente fare un cenno ad alcuni aspetti delle imprese del settore del turismo che, oltre a rappresentare una fetta particolarmente importante del PIL Nazionale (oltre il 13% del PIL Nazionale e del 15% dell’occupazione totale, per un totale aggregato di circa 3,5 milioni di occupati), costituiscono una delle maggiori attrattività della vita sociale di tutti i giorni, a qualunque livello, età e ceto sociale.
Sotto l’aspetto normativo il settore alberghiero era ed è tuttora regolamentato dal “Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo”, integrato dalle varie leggi regionali. Detto impianto mantiene salde le distinzioni tra le diverse tipologie di strutture ricettive, in funzione delle specifiche caratteristiche strutturali e gestionali, e la loro classificazione in base ad elementi quali-quantitativi dei servizi offerti (le famose “stelle”).
I pubblici esercizi di ristorazione, fino al 2010, erano a loro volta classificati in base alla tipologia del prodotto e delle modalità di servizio offerti. L’avvento della “Direttiva Servizi” (2006/123/CE) recepita attraverso il d.lgs 26/3/2010 n.59, ha (di fatto) superato il regime delle “licenze” stabilendo, all’art. 64, che “l’apertura o il trasferimento di sede degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico di cui alla legge 25 agosto 1991, n. 287, sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal comune…. solo nelle zone soggette a tutela ai sensi del comma 3”. Negli altri casi sono soggetti (esclusivamente a) “segnalazione certificata di inizio di attività”.
Il comma 3 dell’art. 64, a sua volta, conferisce ai Comuni – “limitatamente alle zone del territorio da sottoporre a tutela” (in pratica ai centri storici) la facoltà di adottare “provvedimenti di programmazione delle aperture…” in presenza di “ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità”.
La liberalizzazione dei pubblici esercizi di ristorazione e l’abbandono della rigida distinzione tipologica preesistente (bar, pasticcerie, tavole calde, ristoranti, ecc) e del “contingentamento” delle licenze per ciascuna delle tipologie di servizio ha inciso significativamente sul mercato, consentendo l’apertura di molti nuovi esercizi al di fuori di una programmazione e ponendo problemi nuovi e diversi, che si accentuano in questo lungo periodo di pandemia.
Lasciando ogni valutazione in merito su questi aspetti alle rispettive Associazioni datoriali e sindacali – che giornalmente affrontano la questione (si auspica anche con una visione prospettica del futuro del settore che dovrà inevitabilmente passare attraverso una rimodulazione e riqualificazione dell’offerta, accompagnata da un nuovo sviluppo di professionalità e di specializzazione) – e focalizzando il punto sull’accordo sindacale raggiunto tra le stesse il 26 gennaio u.s., sembra opportuno sottolineare alcuni elementi che rendono condivisibile l’auspicio di procedere ad una vaccinazione il più possibile anticipata dei suoi addetti. Infatti:
– Il Covid-19 è una malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2
– uno studio americano realizzato con i dati dei tracciamenti telefonici nei mesi di marzo e aprile 2020, recentemente pubblicato sul Sole 24 ore, ha evidenziato che, oltre agli ambienti ospedalieri le RSA, i luoghi in cui più facilmente si produce l’infezione sui luoghi di lavoro sono gli esercizi commerciali e di somministrazione, le strutture ricettive, il settore manufatturiero e logistico e altri servizi alle imprese (es: pulizia, vigilanza, ecc)
– i dati INAIL al 31 dicembre 2020 hanno evidenziato 131.090 contagi negli ambienti di lavoro, un quarto dei quali rilevati nel settore della sanità e assistenza sociale. I restanti contagi, pur non essendo disponibili dati disaggregati e affidabili, si concentrano negli altri comparti;
– la diffusione del contagio nei bar, nei ristoranti e nelle strutture alberghiere – tra le più penalizzate in questo periodo pandemico – appare essenzialmente collegabile al cosiddetto consumo “fuori casa”, accompagnato da: (i) necessità degli utenti di togliere la mascherina per consumare, (ii) contatti con le superfici (stoviglie, tavoli, menù, tavoli, sedie, ambienti comuni) (iii) vicinanza con altri avventori per periodi spesso superiori ai 10/15 minuti,(iv) aggregazione di utenza all’interno e all’esterno delle strutture, (v) intensiva diffusione di locali di svago e di ristorazione.
Ne consegue che la possibilità di vaccinare circa 3,5 milioni di addetti al settore il più velocemente possibile è non solo opportuno ma anche auspicabile.
Non va comunque trascurato il (correlato) tema dell’obbligo vaccinale, attualmente limitato nella legislazione vigente alla prevenzione contro il tetano e contro le malattie tipiche dell’età infantile. Tema che mai come in questo periodo sta riempiendo le pagine della stampa specializzata e dei social.
La teoria prevalente, nonostante le molte contrarie (e spesso condivisibili) interpretazioni, è che per introdurre un obbligo vaccinale (ai propri dipendenti o ad una determinata categoria di persone) sia necessaria una legge formale del Parlamento.
La necessità discende direttamente dall’art.32 della Costituzione che, nel riconoscere la salute come «fondamentale diritto dell’individuo», tutela, tra le altre espressioni della libertà, quella di autodeterminazione nella scelta delle cure sanitarie, che comprende anche quella di non essere sottoposti a cure o terapie che non siano liberamente accettate. Di tal che solo uno stato di necessità per la salute pubblica può consentire al legislatore l’imposizione di un trattamento sanitario.
Ma anche in tal caso, tuttavia, il legislatore deve rispettare le due condizioni poste dal comma 2 dello stesso articolo. La prima, di natura formale, per cui l’obbligo di sottoporsi a un determinato trattamento sanitario può essere previsto solo da una legge ordinaria; la seconda, di natura sostanziale, per cui in nessun caso possono essere violati i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 39 del 27/9/2017 relativa alla legge regionale del Veneto sulla libertà di scelta di sottoporre ai vaccini la popolazione in età infantile, ha già avuto modo di tracciare una linea di demarcazione del problema. La Corte infatti, dopo aver premesso che, anche quando sia in gioco la salute collettiva, il trattamento sanitario non è consentito ove non rispetti il «limite irriducibile della persona umana» in forza del principio personalista (art. 2 della Costituzione), ha chiarito il significato del diritto alla salute con riferimento al caso in cui la sua dimensione individuale confligga con quella collettiva. In tale ipotesi, che ricorre tipicamente nel caso delle vaccinazioni, il disposto costituzionale (art.32 Cost.) subordina la legittimità dell’imposizione dell’obbligo di vaccinazione alla compresenza di un interesse, non altrimenti tutelabile, alla salute del singolo e della collettività.
Chiariti i termini del problema sotto il profilo costituzionale, il tema di confronto (e di scontro) è se le disposizioni dell’art.2087 del codice civile e del TUSL (art.18, art.20, art.279) possano considerarsi già attuativi della riserva di legge posta dall’art.32 della Costituzione. E se sia necessaria uha “norma ad hoc” – o una “norma interpretativa” – di iniziativa parlamentare, che introduca l’obbligo o accerti l’attuazione della riserva di legge, ove questa venga riconosciuta esistente.
Correttamente, quindi, l’Accordo Confederale sopra richiamato si limita ad auspicare, “la più alta partecipazione possibile dei lavoratori occupati nel settore alla campagna vaccinale in corso” anche attraverso “campagne di informazione e sensibilizzazione” – senza peraltro intervenire sulla “vexata quaestio” dell’obbligo.
Sarebbe quindi tempo che anche il Parlamento facesse la sua parte, uscendo dalla nebbia di un’incertezza che riguarda l’intera popolazione e che non aiuta certo ad affrontare (e a contribuire a risolvere, in prospettiva) il problema della pandemia.
Tra le ipotesi percorse – sottolineate da alcuni commentatori – è quella che sarebbe anzitutto necessaria (e prodromica ad un intervento parlamentare) la revisione del Protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del Covid-19 (Allegato 12 al DPCM 4/11/2020), nel punto in cui lo stesso testualmente afferma: “Il Covid-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione… che seguono la logica della precauzione e attuano le prescrizioni del legislatore e le indicazioni dell’Autorità sanitaria”. Alla luce dell’esperienza fin qui maturata, infatti, sembra di potersi affermare che nei settori in cui sia accertata una maggiore diffusione del virus non si sia in presenza di un rischio generico bensì di un rischio specifico, a fronte del quale il datore di lavoro è obbligato ad adottare tutte le misure di prevenzione messe a disposizione dalla scienza e dalla tecnica. Che nel caso specifico, in assenza ancora di terapie di cura contro il virus, significa oggi “vaccino”.
Antonio Tarzia
ADAPT Professional Fellow