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Bollettino ADAPT 22 febbraio 2021, n. 7
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha diffuso, l’8 febbraio 2021, la circolare n. 1 del 2021 con la quale, preso atto che l’Ufficio legislativo del Ministero del Lavoro ha rivisto l’orientamento interpretativo in materia di lavoro intermittente, ha ritenuto di dover aderire all’interpretazione fornite dalla Suprema Corte di Cassazione resa nella sentenza n. 29423 del 13 novembre 2019, in base alla quale alle parti sociali è affidata l’individuazione delle sole “esigenze” che giustificano il ricorso al lavoro a chiamata e non anche un potere di interdire l’utilizzo di tale tipologia contrattuale nei diversi settori merceologici. Pertanto, il personale ispettivo è tenuto a “conformarsi alla pronuncia della Suprema Corte, nel senso di non tener conto, nell’ambito dell’attività di vigilanza, di eventuali clausole sociali che si limitino a “vietare” il ricorso al lavoro intermittente”.
Diversamente da quanto ora espresso nelle note n. 930 e n. 931 del 1° febbraio 2021, il Ministero del Lavoro, nella precedente nota n. 18194 del 4 ottobre 2016, aveva considerato come legittima l’ipotesi in cui il contratto collettivo impedisca il ricorso alla tipologia contrattuale specificando anche che, a fronte di una carenza delle condizioni legittimanti l’utilizzo della stessa, il datore di lavoro sarebbe incorso nella sanzione della conversione del contratto di lavoro intermittente in un contratto a tempo pieno ed indeterminato.
Il dietrofront del Ministero del Lavoro solleva non poche perplessità, per una serie di ragioni che proveremo sinteticamente a spiegare. Anzitutto, sembra abbastanza singolare che la prassi amministrativa si preoccupi di recepire l’orientamento interpretativo espresso in una sola sentenza e non piuttosto a seguito di un nutrito contenzioso, che magari ha visto contrapposte anche diverse ricostruzioni. Tuttavia, questa perplessità potrebbe essere agevolmente spiegata rilevando che sul tema si registra una scarsità del contenzioso giudiziario (G. Centamore, Lo Statuto intermittente dei lavoratori, in Lav. dir., 2020, n. 4, p. 597) e quindi non vi sono le condizioni di fatto per favorire lo sviluppo di riflessioni giuridiche che vadano a toccare i diversi profili critici del lavoro a chiamata (e del connesso potere normativo dell’autonomia collettiva). Ma abbandonando questa disputa squisitamente sociologica, occorre analizzare brevemente l’iter argomentativo della Corte per poter poi far emergere i nodi problematici ai quali abbiamo fatto cenno.
Venendo alle questioni di diritto, secondo la Corte di Cassazione, la disposizione che ratione temporis disciplina il lavoro a chiamata (art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003, oggi art. 13 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2015) si limiterebbe a demandare alla contrattazione collettiva soltanto l’individuazione delle esigenze per le quali è consentita la stipula di un contratto di lavoro a prestazioni discontinue, senza riconoscere esplicitamente alle parti sociali alcun potere d’interdizione in ordine alla possibilità di utilizzato della tipologia contrattuale. Né, afferma la Corte, un siffatto potere di veto potrebbe ritenersi implicito nel rinvio alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto della nuova tipologia contrattuale, relativo alla individuazione di situazioni particolari e aggiuntive che giustificano (e non vietano) il ricorso al lavoro intermittente. L’impossibilità di configurare una funzione interdittiva del contratto collettivo rispetto all’utilizzo della tipologia contrattuale sarebbe ricavabile, secondo la Corte, da diversi elementi testuali contenuti nel Capo I del Titolo V del d.lgs. n. 276 del 2003 applicabile al tempo in cui si colloca la vicenda in esame: primo tra tutti, l’art. 34, comma 3, che tra le ipotesi di divieto di ricorso al lavoro intermittente non contempla anche quella di inerzia o veto delle parti collettive.
Eppure, nonostante l’autorevolezza e l’importanza della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, le conclusioni alle quali perviene la giurisprudenza di legittimità – tutte incentrate sulla lettera della legge – sono, ad avviso di chi scrive, superabili (e quindi non condivisibili) in quanto:
a) si presuppone che obiettivo e funzione dell’azione sindacale, in una prospettiva interpretativa costituzionalmente orientata (art. 39 Cost.), sia quella di stabilizzare i meccanismi di mercato, attraverso la ricerca di equilibri costruiti dalle parti nelle dinamiche negoziali;
b) nella ricerca di questo equilibrio, le parti, nel rispetto tanto del principio di inderogabilità in peius della norma di legge che della libertà sindacale di cui all’art. 39 Cost., devono ritenersi libere nella gestione delle complessità del mercato del lavoro settoriale, anche ponendo un freno all’impiego di tipologie contrattuali flessibili ancora poco esplorate nella prassi e che potrebbero favorire la creazione di sacche di lavoro irregolare;
c) nello stesso senso si è pronunciata la Corte Costituzionale (ex multis, Cost. 7 febbraio 1985, n. 34) ribadendo il principio secondo cui il potere dell’autonomia collettiva non può essere limitato se non per far fronte a situazioni eccezionali, a salvaguardia di superiori interessi generali, e quindi con carattere di transitorietà;
d) peraltro, sarebbe ragionevole ritenere che la clausola interdittiva dell’accesso al lavoro intermittente sia legittima nella misura in cui si presuppone che sia di miglior favore per il lavoratore in quanto volta a contenere i rischi derivanti da un’eccessiva flessibilità nell’impiego di manodopera (pur consapevoli del fatto che questa ulteriore osservazione si basi su argomentazioni scivolose perché, capovolgendo la prospettiva, potrebbe essere sfavorevole al lavoratore una disposizione che limita il ricorso ad una tipologia contrattuale perché si potrebbe tradurre in una perdita di chance e quindi di occupazione);
e) ancora, non sembra del tutto convincente l’opinione in base alla quale la disciplina del lavoro intermittente non sarebbe soggetta ad interdizione in quanto norma imperativa, che tutela l’occupazione di alcune fasce deboli del mercato. Pare piuttosto problematico attribuire valore imperativo a uno strumento, tra molti, di promozione dell’occupazione, soprattutto se l’autonomia privata (collettiva) è stata in grado di indirizzare il settore verso un’occupazione stabile e di qualità.
Argomentando in questo senso, possiamo ritenere che tanto sarebbe bastato al Ministero del Lavoro per non ritrattare l’orientamento manifestato nel 2016, in linea con un’interpretazione costituzionalmente orientata del rapporto tra legge e contratto collettivo. Il Dicastero avrebbe, quindi, potuto considerare con più cautela l’idea di aderire sic et sempliciter al principio di diritto sancito nella sentenza del 2019, che non pare valorizzare l’agire dell’autonomia collettiva nel prisma dei principi costituzionali che governano la materia. Anche perché ora la problematica rischia di “esplodere” nelle mani del sindacato che si trova a doversi orientare in un campo minato.
Non va, infatti, preso sottogamba il fatto che la sentenza e, di riflesso, la circolare vanno ad impattare (negativamente) su alcuni dei recenti accordi che hanno dettato una peculiare disciplina per il contratto di lavoro a tempo determinato dopo l’entrata in vigore del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. Decreto “Dignità”). L’associazione datoriale Confcommercio ha sottoscritto degli accordi territoriali con le organizzazioni sindacali di settore Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil per dare attuazione all’art. 66-bis del CCNL. Questa disposizione prevede che “in determinate località a prevalente vocazione turistica” le organizzazioni sindacali possono stipulare appositi accordi per le aziende di settore che “pur non esercitando attività a carattere stagionale […] necessitano di gestire picchi di lavoro intensificati in determinati periodi dell’anno”. In altri termini, l’accordo territoriale consente di individuare un’area geografica nell’ambito della quale a tutti i contratti di lavoro a tempo determinato è riconosciuto il carattere della stagionalità, con tutte le connesse agevolazioni normative in tema, ad esempio, di esclusione dell’obbligo di indicare una causa del contratto sia al momento della stipulazione sia per il caso di proroghe e rinnovi. Tra i più significativi, vi è l’Accordo sulla stagionalità per l’utilizzo del contratto a termine nelle aziende di Roma e Provincia, sottoscritto il 2 settembre 2019 da Confcommercio Roma e dalle organizzazioni sindacali Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil e l’Accordo territoriale sui contratti a tempo determinato “Milano Città Turistica”, sottoscritto il 6 novembre 2019 da Confcommercio Milano e dalle organizzazioni sindacali Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil.
In questi contratti territoriali (nell’accordo di Milano, v. art. 2, comma 4; mentre nell’accordo di Roma, v. art. 4, comma 2), è previsto che “contemporaneamente alle assunzioni a termine ai sensi del presente Accordo” le imprese aderenti non possono assumere lavoratori con “contratti di lavoro intermittente di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 81/2015” nonché con “contratti di somministrazione di lavoro di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 81/2015”, con l’evidente fine di evitare un eccessivo ricorso al lavoro flessibile.
Ora, nell’ottica del Dicastero, dovremmo concludere che anche le disposizioni degli accordi territoriali sopra citati che impediscono l’utilizzo del contratto di lavoro intermittente siano inefficaci perché contrastanti con i limiti imposti dal legislatore alla contrattazione collettiva, sia pure essa nazionale, territoriale o aziendale.
Ma ancora una volta, in soccorso potrebbe giungere un’interpretazione costituzionalmente orientata di tutta la vicenda contrattuale, tesa a salvaguardare l’operato del sindacato. Nell’ottica della libera contrattazione che si spiega nell’ambito dell’art. 39, comma Cost., se da una parte il sindacato concede maggiori dosi di flessibilità in determinati territori per l’utilizzo del contratto a termine, dall’altra, è ragionevole che pretenda una contropartita ai fini della costruzione di un equilibrio tra forze contrapposte alla ricerca di una giustizia contrattuale. Una contropartita rappresentata, in questo caso, da una sorta di autoriduzione (o anche autolimitazione) del potere datoriale, consistente nel non fare ricorso ad ulteriori tipologie contrattuali flessibili per il medesimo bacino di prestatori di lavoro, onde evitare che un’eccessiva flessibilità nell’impiego di manodopera marginalizzi la forma comune di rapporto di lavoro (cfr. art. 1 del d.lgs. n. 81 del 2015). Anzi, in quest’ultima casistica evocata, non possiamo esimerci dall’osservare come il sindacato in questo caso sia posto anche nel solco della politica del diritto del legislatore che, attraverso il decreto “Dignità”, ha voluto porre un freno all’eccessiva esposizione dei lavoratori ad una varietà di tipologie contrattuali che rendono il lavoro precario e instabile. Dunque, una perfetta armonia (o quasi) tra l’autonomia collettiva e il legislatore, da un lato; dall’altro, una perdurante contraddizione tra i due contropoteri dell’imprenditore per eccellenza, il sindacato e la giurisprudenza, che come ha ricordato di recente M. Tiraboschi richiamando G. Giugni (M. Tiraboschi, Persona e lavoro tra tutele e mercato, relazione AIDLASS 2019, p. 9), non sempre sono stati in sintonia o comunque comunicanti tra loro.
Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia