Dal filantropismo al welfare aziendale territoriale – Cenni di storia e di pratiche di CSR

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Bollettino ADAPT 27 maggio 2019, n. 20

 

Dal filantropismo…

 

«A business that makes nothing but money is a poor kind of business». Non è raro trovare oggi questo aforisma di Henry Ford – di cui spesso viene ricordata anche la ricerca pionieristica di materiali e combustibili a minor impatto ambientale per la produzione della Hemp Body Car – citato nei manuali e negli opuscoli dedicati alla responsabilità sociale d’impresa (corporate social responsibility, CSR). Un tema oggetto di studio da parte di economisti e sociologi fin dal secondo dopoguerra.

 

L’origine del concetto, a livello accademico, viene convenzionalmente fatta risalire a uno scritto del 1953 dell’economista H.B. Bowen, in cui l’autore sosteneva che esistesse una responsabilità sociale degli uomini d’affari, consistente «nell’obbligo di perseguire quelle politiche e di adottare quelle linee di azione che sono desiderabili rispetto agli obiettivi e ai valori della nostra società»[1]. Nei decenni a seguire molti altri studiosi hanno iniziato a interessarsi dell’argomento, talora anche con l’intento di criticare l’opportunità stessa che venga attribuita una responsabilità sociale alle imprese: è il caso del premio Nobel Milton Friedman, secondo cui era da considerarsi illegittimo l’impiego di risorse aziendali per finalità sociali, che dovevano invece rimanere prerogativa esclusiva del potere pubblico. La CSR agli occhi dell’economista appariva come una dottrina fondamentalmente sovversiva, dal momento che «there is one and only one social responsibility of business – to use its resources and engage in activities designed to increase its profits so long as it stays within the rules of the game […]».

 

Un solido sostegno teorico al concetto di CSR arriva invece negli anni Ottanta grazie alla stakeholder theory: se l’impresa rappresenta il nodo principale di una rete di portatori di interessi non solo economici verso i quali è chiamata a rendere conto, allora non possono che sussistere in capo a essa responsabilità che vanno oltre alla ricerca del massimo profitto.

La teoria degli stakeholder, ormai diventata un classico negli studi di management, ha permesso di superare la riduzione della responsabilità sociale delle imprese a mero filantropismo: iniziative di restituzione ex post, seppur lodevoli, dicono infatti poco di come un’impresa conduce il suo business. Una charity campaign a favore di bambini che vivono in condizioni disagiate non rende un’azienda socialmente responsabile se i prodotti che commercializza sono prodotti in uno sweatshop del sud-est asiatico che sfrutta la manodopera minorile. La scelta di fornitori che rispettano determinati standard socio-ambientali nei loro processi di produzione risponde invece a una logica di responsabilità sociale. Ciò che la teoria degli stakeholder suggerisce è di porre i bisogni, gli interessi e le aspettative dei vari portatori di interesse all’inizio di ogni valutazione aziendale: il concetto di responsabilità sociale di un’impresa entra nella sua fase di maturità quando inizia a far proprio questo framework, quando cioè da sforzo compensativo diventa un approccio al business che incide su ogni scelta gestionale.

 

Un altro tassello al discorso attorno alla responsabilità sociale d’impresa viene aggiunto con la pubblicazione da parte delle Nazioni Unite del rapporto Brundtland nel 1987: il rapporto non aveva ad oggetto propriamente la CSR, ma introduceva per la prima volta nel dibattito collettivo un tema a essa connesso, cioè il concetto di sviluppo sostenibile, definito come quella modalità di sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. Quello della sostenibilità è oggi un argomento divenuto centrale e in parte ha assorbito quello di CSR: il richiamo agli Sdg (Sustainable Development Goals), elaborati dalle Nazioni Unite nel 2015 nell’ambito della Agenda 2030, è sempre più frequente nelle strategie di sviluppo delle istituzioni europee e delle imprese, per le quali una tra le maggiori sfide che si presenteranno nel prossimo futuro sarà quella di integrare la sostenibilità nelle strategie aziendali cercando di renderla una leva di competitività e di crescita.

 

In anni più recenti, due dei contributi teorici che hanno avuto più risonanza nell’ambito della riflessione sulla CSR sono quelli di Elkington (1997) e quello di Porter (2011). Secondo John Elkington, economista inglese, per valutare l’intero impatto generato dalle attività d’impresa è necessario affiancare alla classica rendicontazione economico-finanziaria quella sociale ambientale, dando vita così a una triple bottom line, espressione coniata da Elkington sulla scia dell’approccio precedentemente noto come “persone, pianeta, profitto”.

La teoria della creazione del valore condiviso di Porter e Kramer (2011) si basa invece sulla premessa che la performance dell’impresa e la salute della comunità in cui è inserita siano mutualmente dipendenti e che sia possibile generare valore economico con modalità che al contempo producono valore per la società: un esempio cui spesso si fa ricorso è quello dell’impresa che decide di intervenire per migliorare la propria logistica attraverso l’ammodernamento e il potenziamento delle infrastrutture esistenti sul territorio.

 

Anche le Nazioni Unite si sono interessate in questi ultimi vent’anni di temi connessi allo sviluppo sostenibile e alla CSR: prima con il Global Compact, un’iniziativa strategica lanciata operativamente nel luglio del 2000 per incoraggiare le aziende di tutto il mondo ad adottare politiche di responsabilità sociale e di sostenibilità e poi, più recentemente, con la già citata Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Molto rilevanti sono anche le Linee Guida OCSE destinate alle Imprese Multinazionali[6] – il cui ultimo aggiornamento è stato pubblicato nel 2011 – in cui sono illustrati principi e standard (non vincolanti) per una condotta d’impresa responsabile che i governi firmatari si impegnano a promuovere. Nelle Linee Guida si parla di responsible business conduct (RBC) e non viene usata la locuzione CSR ma le sovrapposizioni sono evidenti: alla descrizione dei comportamenti attesi in ambiti come diritti umani, ambiente, interessi del consumatore si accompagna l’indicazione degli strumenti cui le imprese possono fare riferimento. Come nelle riflessioni più recenti sul tema della responsabilità sociale d’impresa, anche la responsible business conduct indicata dall’OCSE si basa sull’idea che le imprese che vogliano contribuire al progresso non solo economico ma anche sociale e ambientale non possano limitarsi ad azioni di restituzione ma debbano integrare principi e pratiche responsabili in tutti gli ambiti di corporate governance. La responsible business conduct riguarda quindi anche la politica fiscale, aspetto quest’ultimo che non sempre trova spazio nei ragionamenti sulla CSR e che alcuni studiosi invitano invece a considerare con più attenzione, sottolineando ad esempio come le decisioni delle imprese che assumono scelte strategiche nell’ottica di godere dei vantaggi generati dal dumping fiscale praticato da alcuni Stati abbia un impatto sociale non trascurabile.

 

…al welfare aziendale territoriale

 

A livello europeo, la CSR è entrata formalmente nell’agenda dell’Unione a partire dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000, che rivolgeva un «appello al senso di responsabilità sociale delle imprese in materia di migliori pratiche concernenti l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, l’organizzazione del lavoro, le pari opportunità, l’inclusione sociale e lo sviluppo sostenibile». L’anno successivo veniva poi pubblicato dalla Commissione europea il Libro verde, Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, un vero e proprio vademecum su principi e prassi di CSR in cui è contenuta una delle definizioni ancora oggi maggiormente citate di responsabilità sociale d’impresa: «l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate».

 

Nel Libro verde vengono distinte una dimensione interna e una dimensione esterna della CSR. La dimensione esterna riguarda i rapporti con comunità locali, fornitori e consumatori, i diritti dell’uomo e le preoccupazioni ambientali a livello planetario. Della dimensione interna invece fanno parte materie come la salute e la sicurezza sul lavoro e la gestione delle risorse umane e vengono anche indicate alcune possibili politiche, che nell’ambito delle risorse umane devono ad esempio andare nella direzione di promuovere formazione continua, bilanciamento lavoro-vita privata, welfare e benessere sul lavoro, parità di genere e di trattamento.

 

Il welfare aziendale, tradizionalmente considerato come uno degli strumenti principali in cui può sostanziarsi l’impegno sociale delle imprese verso i propri dipendenti, merita un discorso a parte. Erede del cosiddetto welfare di fabbrica – espressione con cui si indicavano quelle misure di natura sociale adottate (tendenzialmente con atteggiamento paternalista) da alcuni imprenditori – il welfare aziendale rappresenta oggi una realtà non più di nicchia, che sta suscitando un crescente interesse sia a livello istituzionale sia a livello imprenditoriale.

 

È convinzione diffusa che alcuni interventi legislativi degli ultimi anni abbiano accelerato l’affermarsi del welfare aziendale, a partire dalla legge di stabilità 2016 che ha reso superati i requisiti di unilateralità e volontarietà e riconosciuto di fatto al welfare una funzione economica. Si è passati così a un quadro normativo in cui beni e servizi di welfare sono esclusi interamente dal reddito da lavoro dipendente soltanto nei casi in cui i piani di welfare siano contrattati. I vantaggi fiscali e contributivi legati alle politiche di welfare dovrebbero in ogni caso rimanere giustificati dalla finalità sociale che sta alla base di questa e delle altre misure di responsabilità sociale che un’azienda decide di adottare. Chiarito ciò, è opportuno tuttavia ricordare che le politiche di welfare aziendale, al pari di altre misure di CSR, rimangono comunque un tema divisivo, quantomeno perché resta sempre discutibile l’intenzionalità con la quale le aziende vi si orientano. Si possono infatti individuare alcune tipologie di approcci concreti alla responsabilità sociale.

 

Una prima tipologia è rappresentata da quelle imprese che si impegnano in attività di responsabilità sociale mosse da motivazioni intrinseche, da un’autentica sensibilità etico-sociale o dalla consapevolezza olivettiana che l’impresa possa assumere il ruolo di attore protagonista di trasformazione non solo economica ma anche sociale. A queste si affiancano imprese che adottano pratiche di CSR come mera risposta a pressioni esterne provenienti dalla società civile o dal legislatore. Vale la pena ricordare il decreto legislativo n. 254 del 30 dicembre 2016, attuativo della Direttiva UE 95/2014, che ha introdotto per la prima volta in Italia l’obbligo per determinati tipi di aziende di integrare il bilancio civilistico con una “relazione non finanziaria” sulle politiche ambientali, sociali e di governance dell’azienda: una relazione basata dunque sui cosiddetti fattori ESG (environmental, social, governance), peraltro sempre più decisivi nelle decisioni di allocazione del risparmio da parte dei grandi fondi di investimento. Ci si può domandare quindi come agirebbero le imprese che concepiscono la CSR in un’ottica di mera compliance normativa, come prezzo da pagare per ottenere la licenza a operare, se si trovassero in un contesto sgombro da tali vincoli. Domanda che si riproporrebbe similmente per il welfare aziendale in uno scenario privo dei citati incentivi.

 

Ci sono poi aziende che, pur scegliendo autonomamente di investire nella CSR, lo fanno con l’ottica opportunistica di attrarre quella parte di consumatori attenta alle scelte sociali ed etiche delle aziende e/o per riuscire a beneficiare dei vantaggi in termini di immagine, reputazione, competitività ed employer branding che molte ricerche associano alle imprese socialmente responsabili. Esistono anche imprese che usano la CSR come mera operazione di maquillage finalizzata a oscurare attività irresponsabili, facendo ricorso a pratiche di social/greenwhashing. Si potrebbero elencare diversi casi degli ultimi due decenni di grandi companies che regolarmente rendicontavano il proprio impegno sociale ed ecologico salvo poi essere travolte da scandali legati ad esempio allo sfruttamento di lavoro minorile o all’inquinamento ambientale: un caso studio classico è quello della Enron, che prima dello scandalo finanziario che la travolse a inizio Millennio aveva aderito al Global Compact e ricevuto alcuni CSR awards. Volskwagen, prima che scoppiasse il caso Dieselgate, era stabilmente collocata ai primi posti del Dow Jones Sustainability Index: il successivo crollo del valore azionario, i miliardi di euro di sanzioni e il danno d’immagine non quantificabile testimoniano anche quale può essere il prezzo da pagare quando si opta per comportamenti irresponsabili.

 

Un fenomeno che prefigura le possibilità di una nuova dimensione della CSR integrata nell’impresa e diffusa nel tessuto produttivo dei territori è quello del cosiddetto welfare aziendale territoriale. Con questo termine si fa riferimento, in breve, a quelle misure di welfare attuate da agglomerati di imprese di un determinato territorio che mirano a intercettare le esigenze della comunità locale nel suo complesso oltre che dei lavoratori. Questa traiettoria di sviluppo del welfare, che esce dal perimetro della singola impresa, permette di superare il carattere non universalistico degli interventi di natura aziendale e rappresenta anche un’opportunità per le piccole e medie imprese che, facendo sistema, possono così attivarsi in un campo che rimane ancora in via maggioritaria appannaggio delle aziende più grandi e strutturate. Ciò non toglie che anche una azienda singola possa decidere di impegnarsi nel generare beni e servizi di carattere collettivo: si pensi ad esempio alla recente scelta di Luxottica di investire nel potenziamento dell’asilo nido comunale .

Un welfare aziendale così declinato può realizzarsi soltanto attraverso il coinvolgimento di attori pubblici e privati presenti sul territorio e ha tutte le potenzialità per riuscire a generare quel valore condiviso, tanto economico quanto sociale, teorizzato da Porter e Kramer. La diffusione di queste esperienze di welfare territoriale rimane al momento esigua ma sembra plausibile ipotizzare che una forma di welfare aziendale così inserita in logiche di prossimità e di comunità possa incidere positivamente sulla sinergia tra imprese e territorio e sullo sviluppo locale, inteso come ambiente produttivo ma anche come il contesto sociale in cui l’iniziativa economica può svilupparsi avvalendosi delle risorse presenti.

 

Saverio Ascari

ADAPT Junior Fellow

@saverioascari

 

BIBLIOGRAFIA

– J. Elkington, Cannibal with forks: the Triple bottom line of 21st Century Business, Oxford, Capstone, 1997

– R.E, Freeman, Strategic management: A stakeholder approach, Boston, Pitman, 1984

– World Commission on Environment and Development, Our Common Future, Oxford University Press, 1987

– S. Zamagni, Impresa responsabile e mercato civile, Bologna, Il Mulino, 2013

 

Dal filantropismo al welfare aziendale territoriale – Cenni di storia e di pratiche di CSR
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