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Bollettino ADAPT 21 gennaio 2020, n. 3
Cambiano i governi, ma i vizi della comunicazione politica sulle riforme del lavoro restano sempre gli stessi. Non solo quelli legati allo sfruttamento di risorse ideologiche del Novecento industriale, come testimoniato dal recente revamping del dibattito attorno all’articolo 18. Anche gli abusi più “moderni”, in primis quello dei dati, sembrano costituire una costante, almeno degli ultimi 5 anni.
Lo si osserva facilmente guardando alle esclamazioni di trionfo che hanno circondato e circondano Jobs Act, Decreto Dignità, Reddito di Cittadinanza, Quota 100, basate sulla selezione delle voci in positivo delle stime occupazionali o dei dati amministrativi e formulate in chiave quanto più altisonante possibile: miracoli, rivoluzioni copernicane, nuove Italie, Waterloo del precariato, abolizioni della povertà.
Il meccanismo viziato è quasi sempre lo stesso: non si mente o non ci si sbaglia sui numeri (anche se succede anche questo), ma si mente o si sbaglia coi numeri. Si trattano, in altre parole, la correlazione e la successione dei fenomeni suggerendo, o talvolta deliberatamente affermando, che tra questi esistano dei rapporti di causa effetto, in realtà indimostrabili o comunque non-dimostrati. La forma è quella del sillogismo retorico, dove una delle premesse del ragionamento non è certa, ma solo probabile (spesso poco probabile) e talvolta sottintesa.
Si pensi a quando a novembre Matteo Salvini a Uno Mattina aveva parlato di Quota 100 come di “un ricambio generazionale che permette l’assunzione di 100 mila giovani”. Il riferimento era ai 130mila occupati su base annua a settembre 2019, ma si trattava di occupati di tutte le età (quindi non solo giovani), e soprattutto si trattava di nuovi occupati in alcun modo riconducibili a posizioni aperte a seguito di pensionamenti targati Quota 100. Non solo perché il mercato del lavoro è molto diverso da come tende a rappresentarlo l’ingenuità comune legata alla suddivisione fissa di posti di lavoro e a lavoratori intercambiabili. Il rapporto causa effetto suggerito da Salvini non è dimostrabile per il semplice motivo che non esiste una traccia amministrativa (per esempio la richiesta di un incentivo) che “certifichi” che un nuovo assunto “ha preso il posto” di una persona neo-pensionata e in particolare neo-pensionata attraverso Quota 100.
Si tratta dello stesso percorso retorico imboccato da Matteo Renzi per difendere il Jobs Act riconducendovi interamente l’aumento degli occupati e facendo osservare come i dati Istat (quindi non quelli amministrativi) “dimostrassero” l’effetto della riforma. Quanto ai messaggi più recenti, Matteo Renzi ha addirittura twittato che “Con il #JobsAct aumentano le assunzioni e calano i licenziamenti”. Affermazione alquanto ardita, non solo perché i dati ai quali fa riferimento Renzi non riguardano solo gli assunti dopo il 6 marzo 2015, ai quali non si applica (nella quasi totalità dei casi) l’articolo 18, ma anche perché, come ha già fatto notare Valerio De Stefano, il Jobs Act di Renzi, nella parte sui licenziamenti è già stato superato dal Decreto Dignità e dalla Sentenza della Corte Costituzionale che ha restituito alla discrezionalità del giudice la quantificazione dell’indennità risarcitoria, fissata invece dal Jobs Act in proporzione all’anzianità di servizio. Quale disciplina, quando e come, ha quindi impattato sul trend dei licenziamenti?
Alla tentazione del sillogismo retorico non aveva poi resistito nemmeno Luigi Di Maio che da Ministro del Lavoro, dopo aver promesso: “non mi vanterò dei dati di crescita dell’occupazione come fanno i ministri del lavoro” (2 luglio 2018, intervista su La Verità), aveva commentato i dati di Veneto Lavoro attribuendo al Decreto Dignità la capacità non solo di far aumentare la quota di contratti di lavoro a tempo indeterminato (scopo per il quale l’intervento era stato disegnato), ma anche quella di far aumentare “i posti di lavoro”.
In una cornice di sfiducia verso le istituzioni e di deterioramente del credito alla competenza, la continua sollecitazione dell’economia cognitiva garantita da questo tipo di semplificazione svilisce la ricerca delle reali connessioni tra politiche e mondo: non serve alcuno sforzo per capire, perché i dati sono evidenti e la soluzione verso un problema annoso e complesso è semplice.
Ma questo meccanismo non riguarda solo la valutazione ex post delle politiche, bensì anche la loro progettazione. Non si parte cioè da sperimentazioni basate sulle valutazioni di impatto e di rischio. Non per nulla la bontà di una misura come Quota 100 è stata argomentata dai suoi sostenitori sempre con il ricorso ai suoi presunti benefici in termini occupazionali, ma citando cifre in libertà sul rapporto atteso tra nuovi assunti e nuovi pensionati. Si andava dal 5:10 del sottosegretario al Lavoro Durigon, al 1,5:1 di Salvini, fino al 2:1 di Di Maio.
I pochi studi in materia pubblicati sinora stimano tutti un effetto sostituzione molto più limitato. Prima di Quota 100, stimando gli effetti della riforma Fornero, Tito Boeri, Pietro Garibaldi ed Espen Moen avevano calcolato in un working paper Inps che il blocco di 5 lavoratori per un anno aveva ridotto l’ingresso nel mondo del lavoro di circa 1 giovane. Quanto agli effetti di Quota 100, l’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro aveva stimato a marzo 2019 un rapporto di 1 giovane al lavoro ogni 3 lavoratori uscenti con Quota 100; tasso di sostituzione pari quindi al 37%, corretto ad agosto 2019 al 42%. Il Bollettino Economico della Banca d’Italia n.1/2020 ha infine delineato una proiezione secondo la quale nel triennio 2020-2022 le fuoriuscite connesse con Quota 100 verrebbero “solo parzialmente compensate da assunzioni”. L’impatto della misura sull’occupazione complessiva sarebbe nell’ordine di -0,4 punti percentuali.
Ora, è vero che i manuali di comunicazione politica, da ben prima che “post-verità” fosse scelta come parola dell’anno dall’Oxford Dictionary (novembre 2016), mettono in guardia circa l’inefficacia dei dati puri e semplici per generare consenso, e garantiscono invece che si rischia di non spostare voti senza fare leva sui valori e principi, ossia sulla sfera emotiva. D’altronde la promozione del Jobs Act e del Decreto Dignità sono state incentrate sulla preferibilità del “lavoro stabile”, e Quota 100 sul diritto alla pensione e sul lavoro dei giovani. Ma ciò non giustifica che venga poi meno la correttezza nel trattare i dati, considerando i numeri come indice di concretizzazione dei principi e non come misura dei fenomeni.
Anche perché lo sbilanciamento del discorso politico verso le mere questioni di principio ha come effetto la polarizzazione polemica, nella quale si perdono gli elementi che permetterebbe di superare la sterilità del conflitto. Si pensi per esempio alla formazione, alle politiche attive, leva della continuità professionale, o all’invecchiamento attivo e al welfare della persona e anche al Reddito di Cittadinanza e al relativo impatto sulla povertà (ancora una volta con stime prima annunciate e poi sconfessate), ossia quegli elementi che permetterebbero di traguardare le riforme del lavoro nella prospettiva della sostenibilità. Non solo quella finanziaria, ma anche quella del confronto.
ADAPT Research Fellow