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Bollettino ADAPT 13 dicembre 2021, n. 44
Il 9 dicembre 2021 la Commissione Europea ha pubblicato la propria proposta di direttiva in materia di lavoro tramite piattaforma digitale. La proposta si articola in 6 capi per un totale di 24 articoli e individua le seguenti 3 direttrici per il miglioramento delle condizioni di lavoro del lavoro tramite piattaforma: la corretta qualificazione del rapporto di lavoro, con il conseguente accesso alle tutele tipiche del lavoro subordinato (cui è dedicato il secondo capo della direttiva); la previsione di oneri informativi che garantiscano la trasparenza dell’algoritmo impiegato dalle piattaforme digitali (cui è dedicato il terzo capo); il monitoraggio del lavoro tramite piattaforma digitale, in termini di acquisizione di maggiori informazioni sul fenomeno anche da parte delle autorità che vigilano sulla applicazione della normativa lavoristica (cui è dedicato il quarto capo). Il quinto capo della direttiva è dedicato ai rimedi esperibili e alle tutele del lavoro tramite piattaforma digitale, mentre il primo e il sesto capo sono rispettivamente dedicati alle previsioni generali circa l’ambito di applicazione e le definizioni utili ai fini della interpretazione delle singole disposizioni della direttiva e alle previsioni finali relative al recepimento della direttiva da parte degli Stati Membri. In questa sede, ci si soffermerà unicamente sul secondo capo, relativo alla corretta qualificazione del rapporto di lavoro tramite piattaforma digitale.
Come è stato già ricordato dai primissimi commenti sul punto (in particolare A. Aloisi, V. De Stefano, European Commission takes the lead in regulating platform work, pubblicato su SocialEurope.eu, il 9 dicembre 2021), l’ambito di applicazione della direttiva risulta essere più esteso rispetto a quello individuato dalle prime leggi nazionali di regolazione del fenomeno, destinate unicamente ai c.d. rider (è il caso della legge spagnola, la c.d. Ley Rider, ne ha scritto qui L. Serrani per il Bollettino Adapt, ma anche di quella italiana, cfr. capo V-bis del D. Lgs. n. 81/2015, introdotto dalla l. 128/2019 di conversione del d.l. 101/2019). Infatti, come si riporta all’art. 1 (Subject matter and scope) e all’art. 2 (Definitions), la direttiva individua diritti minimi applicabili ad ogni persona che, nell’Unione Europea, instaura un rapporto di lavoro (per come definito dalla normativa nazionale ed europea e dalla interpretazione che ne ha dato la Corte di Giustizia dell’Unione Europea), anche se dissimulato, con una piattaforma digitale, a prescindere dal settore merceologico in cui opera e dalla natura online (es. traduzioni, ecc.) o “on location” (es. delivery, lavoro domestico, ecc.) dell’attività.
Con riguardo alla corretta qualificazione del rapporto di lavoro, cui è dedicato il secondo capo della proposta di direttiva e su cui ci si soffermerà nel presente contributo, all’art. 4, par. 2, sono elencati i criteri per determinare in via presuntiva la natura subordinata del rapporto di lavoro in ragione del controllo operato dalla piattaforma digitale sulla attività lavorativa del “platform worker”. Nello specifico, l’obiettivo delle disposizioni in commento è quello di fornire tutele a tutti quei lavoratori che, pur avendo sottoscritto un contratto di lavoro autonomo, nello svolgimento della propria attività lavorativa, ricevono un controllo tale da parte delle piattaforme digitali da poter essere considerati lavoratori subordinati. La presunzione opera alla contemporanea presenza di almeno due delle seguenti cinque condizioni: 1) la piattaforma digitale determina unilateralmente il compenso; 2) la piattaforma digitale richiede al lavoratore l’adozione di specifici comportamenti (circa, ad es., l’abbigliamento, il rapporto con il cliente, la modalità di svolgimento dell’attività lavorativa); 3) la piattaforma digitale supervisione l’attività lavorativa o verifica la qualità del lavoro svolto, anche tramite mezzi elettronici; 4) la piattaforma digitale interferisce con la organizzazione del lavoratore, limitando, anche tramite sanzioni, l’autonomia organizzativa dello stesso per quanto riguarda, ad esempio, la libertà di individuare i tempi di lavoro o i periodi di assenza dal lavoro e la libertà di accettare o rifiutare gli incarichi o di “subappaltare” l’attività; 5) la piattaforma digitale limita la possibilità, per il lavoratore, di acquisire clientela o di lavorare per più committenti. Come specificato all’art. 5, si tratta di una presunzione che ammette la prova contraria, il cui onere grava sulla piattaforma digitale, che dovrà dimostrare la natura autonoma del rapporto di lavoro riqualificato; mentre, nel caso in cui a contestare la qualificazione del rapporto, rivendicandone la natura autonoma, dovesse essere il lavoratore, la piattaforma digitale dovrà comunque fornire elementi utili a sostegno della tesi.
Come si ricorda nella parte introduttiva del documento in commento (explenatory memorandum), la Commissione ritiene che simili previsioni non abbiano unicamente un fine repressivo, favorendo, le stesse, la certezza del diritto nel mercato del lavoro di riferimento ed espungendo dallo stesso le realtà digitali che intendono accrescere la propria competitività e i propri profitti “sulla pelle” dei lavoratori coinvolti e a scapito delle condizioni di lavoro di quest’ultimi.
La direttiva e, nello specifico, le disposizioni in commento sono state accolte dal mondo delle associazioni di rappresentanza e accademico con entusiasmo, ma non sono mancate voci che, pur condividendo il fine della direttiva, hanno espresso perplessità sul metodo per il suo conseguimento. Ad esempio, secondo Fairwork (progetto dell’Oxford Internet Institute che si occupa del monitoraggio delle condizioni del lavoro tramite piattaforma digitale), la semplice previsione di una presunzione di subordinazione al ricorrere di determinate circostanze può rivelarsi scarsamente efficace rispetto al miglioramento delle condizioni lavorative dei “platform workers”, data la capacità delle piattaforme digitali di modificare ed adattare molto velocemente i propri modelli organizzativi proprio al fine di evitare la riqualificazione del rapporto di lavoro in forza delle legislazioni dei Paesi in cui operano (in questo senso, in dottrina, si veda anche E. Dagnino, Ancora ostacoli sulla “via giurisprudenziale” alla protezione dei lavoratori della gig economy in Italia, in ADL, 2019, n. 1, 165). Inoltre, Fairwork fa notare come la direttiva non preveda forme di tutela per tutti quei lavoratori delle piattaforme digitali che non verranno riqualificati o che possono essere considerati genuinamente autonomi, sebbene versino in condizioni di lavoro precarie e prive di diritti (si pensi, ad esempio, al caso dei servizi alla persona).
Una volta approvata la direttiva, dunque, la palla passerà ai singoli Paesi Membri, che, nel rispetto delle indicazioni generali tracciate dalla legislazione euro-unitaria, dovranno individuare le misure più efficaci per garantire tutele minime alla crescente schiera di lavoratori delle piattaforme digitali.
Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia “Marco Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia