Fa il pontiere, Cesare Damiano. Il presidente della Commissione Lavoro alla Camera – che a giorni comincerà l’esame del Jobs Act – assicura che i tempi per chiudere la partita entro dicembre ci sono, terza lettura al Senato compresa. E però: «Consiglierei di abbandonare la via dello scontro e dei muscoli e di seguire la via del dialogo. La legge delega va cambiata, alcune delle contraddizioni al suo interno deve sanarle il Parlamento».
Lei viene dal sindacato ed è un esponente della minoranza Pd. Crede sia un problema? «Tutte le discussioni relative all’uso della delega per far cadere Renzi, o per una fantomatica resa dei conti, sono fantasie. Non mi interessano. Quando il Presidente del Consiglio dice che qualcuno complotta per dividere il mondo del lavoro parla anche di Bankitalia e delle critiche del suo governatore al Tfr inbusta paga? Oppure è lecito esprimere le proprie opinioni?».
Me lo dica lei. «Io mi auguro si faccia quello che definirei un normale lavoro parlamentare, così com’è stato fatto al Senato e in occasione del decreto Poletti. Niente di più e niente di meno».
Cosa bisogna cambiare? «Il carattere della delega è talmente ampio che il grosso andrà fatto nei decreti attuativi, ma ad esempio c’è chi pensa che non citare né di dritto né di rovescio l’articolo 18 possa avere carattere di incostituzionalità. I miglioramenti cui dobbiamo puntare dipendono anche da quel che ci sarà nella legge di stabilità. L’estensione degli ammortizzatori sociali ai precari si potrà fare solo in presenza di risorse aggiuntive. Che vanno trovate».
Qual è la mediazione cui pensa sull’articolo 18? «Dobbiamo riuscire a inserire almeno l’avanzamento prodotto nel corso della direzione Pd: la possibilità di reintegro, se il lavoratore ha ragione e la causa non è legittima, per i licenziamenti disciplinari oltre che per i discriminatori. Al Nazareno è stato votato a larga maggioranza, partiamo da lì».
II Nuovo Centrodestra remerà contro. «Sono sicuro che ci siano i margini per un accordo. Bisognerà trovarli anche sul tema dei controlli a distanza, il demansionamento, la cassa integrazione che cessa quando finisce l’attività di un’azienda, anche se poi è prevista una ripartenza. Pensiamo a un “ponte” per non creare nuovi licenziamenti».
E possibile cambiare tanto riuscendo ad approvare la delega entro il primo gennaio? «Non è dato in natura che ci siano leggi perfette, e le contraddizioni vanno sanate. Bisogna avere un’attitudine al cambiamento. Ad esempio, si è parlato dell’incentivo per le assunzioni, che vale solo per il 2015. Ebbene, per finanziarlo si eliminano gli incentivi strutturali per gli artigiani e il mezzogiorno, che da soli valevano 7 miliardi e mezzo di euro fino al 2014».
C’è un difetto di ascolto da parte del governo? «Sì. Ed è un problema, perché il contesto non è più quello di quindici giorni fa. Ci sono state la Leopolda e piazza San Giovanni, due luoghi che vanno rispettati, che hanno portato contributi, e che non devono essere messi l’uno contro l’altro. C’è stata l’aggressione agli operai di Terni, ci sono gli incatenati della Meridiana, quelli del Sulcis che scioperano a 80 metri di profondità. È evidente che siamo in una situazione di grande complessità, e che bisogna deporre le armi per cercare la strada del dialogo e del compromesso».
Si candida al ruolo di pontiere? «Un conto è ascoltare le voci che vengono dalle piazze, un altro è pensare di utilizzarle per scopi politici. Capisco la fretta di Renzi, implicita nella sua idea di rivoluzione. Capisco anche che i tempi della concertazione non siano considerati adatti al momento che stiamo vivendo, ma tra la concertazione vecchio stile e il dialogo a singhiozzo, sarebbe auspicabile un sano dialogo sociale».
E se arriva la fiducia? «Spero proprio che non accada».