Si può mentire anche dicendo la verità. È riuscito nell’intento l’Osservatorio sulle pensioni vigenti all’1 gennaio 2016 a cura del Coordinamento attuariale dell’Inps. Come sempre il documento è ricco di dati statistici che, se letti con attenzione e correttezza, consentirebbero di acquisire un quadro realistico del sistema pensionistico italiano (peraltro, nel testo, limitato al settore privato). L’Inps, però, ha voluto richiamare, nell’illustrazione scritta, l’attenzione su alcuni aspetti, finendo in questo modo per orientare, nel consueto senso pauperistico, le valutazioni ed i commenti dei quotidiani e delle tv e quindi l’opinione pubblica.
Si potrebbe parlare, allora, di sviamento informativo premeditato. Il principale degli aspetti che ha ricevuto, nel documento, una particolare sottolineatura, è quello relativo all’importo delle pensioni: una percentuale di poco inferiore al 64% percepisce assegni al di sotto di 750 euro mensili. Il dato è vero, ma le statistiche non possono essere usate nello stesso modo con cui gli ubriachi si servono dei lampioni: per appoggiarsi nel loro incerto procedere e non per vedere nelle tenebre. Non a caso la mancanza di quegli ulteriori chiarimenti che sarebbero stati necessari a spiegare l’effettiva condizione dei pensionati italiani ha determinato il prodursi delle solite litanie: in Italia le pensioni sono basse e quindi i pensionati sono poveri.
Certo, nell’universo delle pensioni c’è di tutto e, mediamente, la vita degli anziani non è facile. Ma sarebbero bastati due caveat per non disorientare nuovamente l’opinione pubblica. In primo luogo non si deve fare confusione tra pensioni e pensionati: le prime (appartenenti ad ogni possibile tipologia) sono 23 milioni ( di cui oltre 18 milioni quelle dei settori privati censite nel documento); i pensionati – come persone fisiche – sono 16,3 milioni. Ne deriva – come è scritto nel Rapporto 2016 di Itinerari previdenziali – che «non è corretto parlare di prestazioni ma di pensionati, cioè di soggetti fisici che percepiscono più prestazioni». Infatti, «dal rapporto tra numero di prestazioni su pensionati emerge, quindi, che nel nostro Paese, in media, ogni pensionato percepisce 1,434 pensioni». Il che determina – secondo il Rapporto citato – che la pensione media per ogni pensionato non è pari a 11.695 euro annui (come risulta dividendo l’ammontare della spesa per il numero delle prestazioni), ma di 16.638 euro (corrispondenti alla divisione tra il monte pensioni e il numero dei pensionati).
Ci fermiamo qui, anche se, nel Rapporto, Itinerari previdenziali, estrapolando gli oneri di carattere assistenziale, si spinge fino a dimostrare che la pensione media di carattere previdenziale risulterebbe di 24.450 euro annui (lordi). Ma c’è dell’altro (ecco il secondo caveat). Non ha senso fornire dei dati medi comprensivi di tutte le tipologie di pensioni, includendovi anche trattamenti che per definizione sono ridotti se non addirittura dimezzati (le pensioni ai superstiti e quelle di invalidità, ad esempio) nonché le prestazioni assistenziali, d’importo modesto. Certo, i dati nel documento dell’Inps ci sono tutti, ma occorre andarseli a cercare, dopo aver scalato il “muro del pianto” dei 750 euro mensili. Il livello medio delle pensioni di vecchiaia/anzianità è pari a 1.147 euro (1.455 gli uomini e 766 le donne). Se fosse specificata separatamente la media delle pensioni di anzianità (il trattamento maschile e settentrionale, per eccellenza) vi sarebbero livelli superiori (pari a più del doppio dei canonici 750 euro).
Si coglie qui un primo elemento su cui riflettere. Il trattamento di vecchiaia è percepito in larga maggioranza dalle lavoratrici perché in generale non sono in grado, per la loro collocazione nel mercato del lavoro, di maturare un’anzianità lavorativa tale da poter accedere al pensionamento anticipato. Purtroppo, l’anzianità contributiva media che sta dietro alla pensione di vecchiaia di una lavoratrice è pari a 25,5 anni (poco più del requisito minimo richiesto). I trattamenti di invalidità (di tipo pensionabile ovvero erogata ai lavoratori in seguito ad un evento che ne ha alterano la capacità lavorativa in mansioni confacenti con le proprie attitudini) sono pari a 663 euro mensili (801 euro gli uomini e 553 le donne); le pensioni ai superstiti (in larghissima maggioranza percepite dalle donne) ammontano a 604 euro mensili (411 nel caso degli uomini e 630 euro in quello delle donne). Il motivo di quest’apparente inversione di tendenza tra i sessi ha una spiegazione banale: i pochi uomini che sopravvivono alla moglie incassano una quota di un assegno più basso, rispetto a quanto normalmente accade a parti invertite.
In Sostanza, il fatto che i trattamenti riscossi dalle donne siano inferiori a quelli degli uomini lo si vede anche in termini rovesciati in caso di premorienza di uno coniugi. Per finire le pensioni e gli assegni sociali hanno un importo medio mensile pari a 422 euro uguale a quello destinato agli invalidi civili. Anche in queste fattispecie – siamo a livello di trattamenti modesti – le donne sopravanzano di qualche euro gli importi percepiti in media dagli uomini. Le statistiche dell’Osservatorio – a volerle leggere con cura – smentiscono sonoramente un’altra rappresentazione della realtà ormai divenuta una sorta di luogo comune che nessuno osa mettere più in discussione: dopo la riforma Fornero i lavoratori e le lavoratrici non riescono più a varcare l’agognata soglia della quiescenza se non da vecchi macilenti e sfiniti.
I dati sull’età effettiva di pensionamento nel 2015 rendono, invece, testimonianza di quanta barbarie e di quale demagogia sia avvelenato il dibattito previdenziale. Basti solo ricordare che, nel 2015, considerando tutti i regimi censiti (dipendenti privati e lavoratori autonomi) il numero delle pensioni di vecchiaia anticipata/anzianità (grazie anche alle generose deroghe riconosciute ai c.d. esodati) sono state in numero maggiore (157mila) di quelle di vecchiaia (124mila). Nel caso del lavoro dipendente c’è stata addirittura la differenza del doppio (104mila +1,5mila prepensionamenti a fronte di 56mila trattamenti di vecchiaia).
A quale età anagrafica, poi, i lavoratori hanno potuto andare in pensione anticipata nel corso del 2015 ? L’età media alla decorrenza (includendo i dipendenti privati e pubblici e i lavoratori autonomi) è stata di 60,5 anni (come totale di uomini e donne): in sostanza, 1,4 anni in più dal 2010; 0,6 anni in più dal 2012, quando è entrata in vigore la riforma Fornero. Certo, l’incremento dell’età effettiva di vecchiaia è stato più importante (2,5 anni), per effetto, però, dell’avvio della parificazione del requisito anagrafico delle donne a quello degli uomini. E, infatti, mentre i lavoratori hanno avuto, nel 2015, un incremento di 0,8 anni dal 2010 (0,4 anni dal 2012), quello delle lavoratrici è stato rispettivamente pari a 2,9 anni e a 2,2 anni.
Ma il bello non finisce qui. Nel decreto “Salva Italia”, Elsa Fornero ci mise sicuramente del suo, ma le disposizioni che più hanno inciso sul tasto dolente dell’età pensionabile le ereditò dal precedente Governo di centro destra (a cui la Lega partecipava) soprattutto per iniziativa di Giulio Tremonti, titolare dell’Economia e “beniamino” di Umberto Bossi. Ci riferiamo ai 12 mesi (18 per gli autonomi) della c.d. finestra mobile (per poter esercitare il diritto alla pensione dopo aver maturato i requisiti) che nel 2011 venne incorporata nella soglia anagrafica; all’aggancio automatico all’attesa di vita e all’avvio (estremamente accelerato nel pubblico impiego sotto minaccia di sanzione europea) della parificazione di genere del trattamento di vecchiaia.
Quanto alla c.d. flessibilità della quiescenza (nuovo cavallo di battaglia dei tanti candidati riformatori – per non dire di peggio – delle regole del 2011, essa era prevista dalla legge Dini del 1995: venne cancellata attraverso il c.d. “scalone” di cui alla riforma Maroni del 2004.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus