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Bollettino ADAPT 29 maggio 2023, n. 20
In attesa di conoscere la versione definitiva del decreto legge pubblicato il 4 maggio 2023, oggetto in questi giorni di serrati commenti, sembra opportuno aggiungere alcune considerazioni sull’ennesima riforma dei contratti a termine (la 16°, a quanto pare), che evidenzia dubbi e perplessità nel confronto tra norme vigenti e «novelle» che rischiano di ingenerare nuovi e massicci interventi della giurisprudenza vanificando, come spesso accade, gli sforzi di rinnovamento del quadro giuridico di riferimento.
Atre osservazioni riguardano le novità introdotte in materia di lavoro occasionale dall’art. 37, apparentemente circoscritto ad alcune attività specifiche del settore turistico e termale, che non dovrebbero quindi riguardare, ad esempio, le attività di svago (sale gioco, locali notturni, ecc.), quelle dell’ospitalità alberghiera e della ristorazione nonché altre attività ibride [come l’agriturismo, a cavallo tra attività agricola, ospitalità e ristorazione]. Ma come si sa, il diavolo si nasconde nei dettagli; quindi sulle vere intenzioni del Legislatore si affastellano già diverse ipotesi.
Ciò detto, sembra in ogni caso esagerata una certa stroncatura giornalistica che definisce «spazzatura» queste forme di lavoro, dimenticando (rectius: fingendo di non sapere) che i contratti a termine esistono nel nostro Paese dal 1962 e che le prestazioni accessorie (ex voucher) risalgono al decreto Biagi del 2003; e che sugli stessi hanno messo mano Governi di ogni tempo e colore, attraverso una politica di back and forth che, per restare sul linguaggio netturbino usato da questi commentatori, ha periodicamente proceduto ad una sorta di «smaltimento differenziato» di norme sgradite a una parte, sostituite con norme più gradite [ma altrettanto confuse] alla parte avversa.
Va dato atto, per onestà intellettuale, che tutte le forme di contratto flessibile non offrono ai lavoratori le stesse sicurezze economiche del lavoro subordinato a tempo indeterminato, perché spesso non consentono di assumere con fiducia prospettica gli onerosi impegni economici che conseguono all’acquisto della casa o alla nascita di un figlio. Tant’è che le direttive europee, e la stessa normativa interna, indicano il contratto a tempo indeterminato come «la forma comune di rapporto di lavoro» ritenendola utile ad assicurare alla famiglia una vita serena, libera ed economicamente dignitosa.
Ma bisogna tener conto, e la statistica lo dimostra, che la durata media dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nel corso degli ultimi 2 decenni, ha subito una notevole contrazione rispetto a quanto la memoria storica ci potrebbe far ipotizzare.
Dal rapporto dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro del Veneto nel decennio 2006 -2017 (consultabile al seguente link) emerge ad esempio che, nel decennio considerato, la durata media dei contratti individuali di lavoro subordinato a tempo indeterminato presso la stessa impresa/ente è sceso a 3 anni per il 40% della popolazione considerata, attestandosi intorno ai 5 anni solo nel 30% dei casi esaminati. Ancor più sorprendente è la percentuale di permanenza nello stesso ambito lavorativo dei rapporti di lunga durata (oltre vent’anni) che oscilla tra il 7 e il 10% (per la gran parte riconducibile a contratti di lavoro pubblico). Analizzando poi i singoli settori, si osservano durate medie inferiori a 4 anni per i servizi di vigilanza, di pulizia e per i servizi turistici.
Tutto questo evidenzia che, al netto delle incertezze prodotte dal lavoro cosiddetto precario, i profondi cambiamenti nel mondo del lavoro non riguardano più solo le imprese, ma anche gli stessi lavoratori, soprattutto giovani, che a differenza dei nostri padri e nonni vivono con disagio e insofferenza una permanenza troppo lunga nel medesimo ambiente di lavoro. Sempre la statistica della Regione Veneto evidenzia tuttavia, nelle rilevazioni annuali del personale in attività lavorativa, un rapporto più o meno stabile tra contratti di contratto a termine e contratti a tempo indeterminato, in percentuale di 1 lavoratore a termine su 8 lavoratori a tempo indeterminato. Confermando che il panorama degli (asseriti) «contratti spazzatura», comunque la si pensi, riguarda solo una percentuale fisiologica del nostro mercato del lavoro.
Restando su temi più strettamente aderenti al nuovo decreto, si spera che almeno alcuni di questi dubbi e domande trovino un chiarimento nella legge di conversione. Anzitutto chiarendo che gli Accordi Interconfederali possono sostituire – o siano comunque assimilabili, in termini di validità ed efficacia – i «contratti collettivi di cui all’art. 51» richiamati al capo 1, lett. b) dell’art. 24 del decreto.
La questione non è solo di forma, né di poco conto. Molti commentatori ritengono infatti improbabile che le parti collettive decidano di mettere mano ancora una volta ad una materia incandescente che, a parte le ritrosie verso ogni forma di flessibilità, ancora distingue tra contratti a termine ordinari e contratti a termine stagionali, con meccanismi, regole, costi e modalità operative del tutto diverse. Col rischio quindi di individuare causali specifiche sulle quali si possa porre il concreto dubbio se siano riferibili all’una o all’altra forma contrattuale.
La stessa Corte di Cassazione, nella recente ordinanza n. 9212/2023, ha infatti chiarito che tra le attività stagionali possono comprendersi solo le attività organizzate per un espletamento temporaneo e non anche le situazioni aziendali collegate a «picchi di stagionalità», per le quali non opera la deroga al divieto di superamento di durata del contratto [24 mesi o quella diversa prevista dai contratti collettivi], mettendo così in discussione lo stesso rinvio legale ai contratti collettivi stabilito dall’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015.
Ci si permette di richiamare a detto proposito alcuni interventi sul tema già pubblicati da ADAPT nel recente passato (A.Tarzia, La nuova causale dei contratti a termine nel decreto sostegni: ennesima timida riforma o solo riordino dell’esistente? in Bollettino ADAPT n. 35/2021, nonché A. Tarzia, La lunga marcia del lavoro stagionale Working Paper ADAPT n. 9/2021), in linea con l’ultima decisione della Corte.
L’ipotesi di un Accordo Interconfederale potrebbe forse rappresentare un terreno comune ed uno strumento utile a neutralizzare gli effetti di inquinamento della disciplina sul contratto a termine dopo il fallimentare intervento del cd decreto dignità, soprattutto se fosse raggiunto al più alto livello di concertazione, come in altre storiche occasioni si è proceduto (tra tutti, l’Accordo Ciampi del 1983) assumendo quindi la forma dell’intesa trilaterale accompagnato da una nota di intenti con cui le parti: Governo, Rappresentanze datoriali e Rappresentanze dei lavoratori si impegnano ad attuare una revisione integrale della disciplina del lavoro a termine che cancelli la differenziazione tra stagionalità di mercato, stagionalità meteorologica e stagionalità strutturale [e relativi costi impropri surrettiziamente indotti] che poteva aver qualche senso nel panorama socio economico del secolo scorso ma che oggi appare completamente superato dai tempi.
In estrema sintesi, si ritiene che la vera semplificazione che imprese e lavoratori attendono non è quella di aggiungere o sostituire nuove causali, scatenando il ritorno ad un contenzioso giudiziario che sembrava superato, ma eliminare ab origine la distinzione tra contratti a termine stagionali e ordinari.
Quanto alla durata del periodo di prova, che il Decreto Trasparenza ha stabilito venga individuato «in misura proporzionale alla durata del contratto a termine ed alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego», sembra accreditarsi l’ipotesi che circola nelle prime bozze del disegno di legge sul lavoro depositato in questi giorni alla Camera, di prevedere un tetto (legale?) di 1 giorno ogni 15 giorni di durata del contratto.
Non è chiaro il perché di questa scelta, atteso che sarebbe più coerente con lo spirito della legge una individuazione “personalizzata” del periodo di prova, di facile applicazione, parametrando la durata della stessa, pro rata temporis, a quella prevista per il contratto a tempo indeterminato del medesimo livello e categoria.
Quanto infine all’innalzamento a 15.000 euro del limite massimo di utilizzo di lavoro accessorio, va semplicemente considerato che la modifica avvantaggia solo le imprese [non si sa quali, a dire il vero] e non certo i lavoratori, la cui soglia di percezione resta fissata in 5000 euro col limite di 2500 euro per ciascun utilizzatore. Sarebbe utile quantomeno specificare meglio chi sono i beneficiari, anche perché un “evento” può essere confezionato in tanti modi: un bar che offre ai clienti serate musicali, un ristorante che organizza serate gastronomiche a tema, incontri culturali o convivi di vario genere, e via dicendo allargando la già vasta platea di fruitori. Anche se – e qui viene il dubbio – per queste tipologie di eventi esistere già un vasto panorama alternativo di forme contrattuali: il lavoro extra o di surroga, di matrice legale, la cui disciplina è completamente dettagliata nei principali contratti collettivi del settore turistico; in alternativa i contratti part time week end e la somministrazione lavoro.
Quale sia quindi lo scopo di questo innalzamento del tetto resta uno dei tanti misteri.
Antonio Tarzia
ADAPT Professional Fellow