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Bollettino ADAPT 15 novembre 2021, n. 40
Nell’ordinamento attuale, «l’interpretazione della legge fornita dalla Corte di Cassazione va tendenzialmente intesa come una sorta di oggettivazione convenzionale di significato», tale da farla presumere «se non quella “esatta”, almeno la più esatta possibile» (Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11747, Ragioni della decisione, sub. 13.5). Il valore esegetico è fondato, dunque, sull’autorevolezza e sulla persuasività del collegio giudicante; tuttavia, questo non rientra fra le fonti del diritto, rimanendo perciò suscettibile – eccezion fatta per il giudice del rinvio – ad alternative rappresentazioni.
Alla luce di tale premessa, appare lecita – forse necessaria prima del consolidamento – una qualche riflessione (critica) alla recente e tutt’altro che persuasiva ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 27934 del 13 ottobre 2021. Il “cuore” della vicenda sottoposta al vaglio di legittimità sta tutto, in sintesi estrema, negli effetti giuridici che scaturiscono dalla “rinuncia” al preavviso lavorato (art. 2118, comma 1, c.c.) da parte del soggetto non recedente (che, in relazione al caso di specie, è il datore di lavoro).
In particolare, la controversia riguarda un dirigente dimissionario, al quale veniva comunicata la volontà datoriale di «esonerarlo dal preavviso», ma che, a convinzione dei giudici del merito, non avendo egli reciprocamente espresso «alcuna volontà di rinunzia alla relativa indennità sostituiva» e nonostante la sua «immediata rioccupazione […], non pregiudicava il diritto dello stesso alla somma oggetto di ingiunzione» (Rilevato che, sub 1.1) ossia l’indennità sostitutiva. Ed è da questo momento, accogliendo il ricorso di parte datoriale, che inizia, a parere di chi scrive, l’equivoco iter motivazionale perorato dalla Suprema Corte.
Per vero, posto che il preavviso ha la «funzione economica di attenuare per la parte che subisce il recesso […] le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto», con prospettive differenti a seconda che si tratti del lavoratore – nel cui caso vi è l’obiettivo di «garantire continuità della percezione della retribuzione in un certo lasso di tempo al fine di consentirgli il reperimento di una nuova occupazione» – o del datore di lavoro del contratto – rispetto al quale vi è la necessità di «assicurare […] il tempo necessario ad operare la sostituzione del lavoratore recedente» – i giudici di legittimità virano in direzione di un sentiero esegetico controverso, affermando che «il tema della rinunziabilità del periodo di preavviso da parte del soggetto non recedente e delle conseguenze giuridiche di tale rinunzia è strettamente connesso e condizionato dalla soluzione che si intende dare alla questione circa la efficacia reale o obbligatoria del preavviso» (Considerato che, sub 8.2).
Con la conseguenza che, muovendo da risalente e immutata giurisprudenza (Cass. 21 maggio 2007, n. 11740 e ss.), esclusa l’efficacia c.d. “reale” del preavviso, implicante il diritto alla prosecuzione del rapporto e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine, in favore di quella c.d. “obbligatoria”, concernente, in luogo del periodo definito dall’autonomia privata collettiva, una equivalente indennità sostituiva (art. 2118, comma 2 c.c.), «la parte non recedente, che abbia – come nel caso di specie – rinunziato al preavviso, nulla deve alla controparte, la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino a termine del preavviso; alcun interesse giuridicamente qualificato è, infatti, configurabile in favore della parte recedente; la libera rinunziabilità del preavviso esclude che ad essa possano connettersi a carico della parte rinunziante effetti obbligatori in contrasto con le fonti dell’obbligazioni indicate nell’articolo 1173 c.c.» (Considerato che, sub 8.5).
Posto che non si conoscono alcuni aspetti della vicenda in esame (ad esempio, il contenuto della comunicazione datoriale sottoscritta dal prestatore per ricevuta e accettazione), dagli elementi che emergono invece con certezza, alcune riflessioni critiche alla pronuncia appaiono quantomeno consentite.
A cominciare dalle perplessità, in radice, sulla chiamata in causa della indennità sostitutiva del preavviso che, come detto, rappresenta fattispecie che si costituisce, eventualmente, in capo al soggetto non recedente, mentre nel caso di specie viene astrusamente invocata, proprio dal lavoratore dimissionario.
All’opposto, se, come pare (sulla ricostruzione della vicenda concreta, P. Dui, Il preavviso, la sua natura giuridica e l’efficacia obbligatoria, Il diario del lavoro, 3 novembre 2021; M. Tesoro, Nessuna indennità al dimissionario se il datore rinuncia al preavviso, in GLav, 2021, n. 44), si discute di un diritto al ristoro originato dall’interruzione ante tempus del contratto, avvenuta per il tramite della comunicazione della rinunzia al preavviso di parte datoriale, si sarebbe dovuto semmai regolare la contesa ai sensi dell’art. 1223 c.c., discutendo quindi «del danno che il prestatore d’opera eventualmente subisce per effetto dell’arbitrario recesso» (per analogia, sulle conseguenze del recesso anticipato dal contratto a tempo determinato, Cass. 13 settembre 1997, n. 9122). Di conseguenza, più d’una perplessità suscita anche l’utilizzo, nel testo dell’ordinanza, del termine “rinuncia” che, se inteso “tecnicamente”, si identifica in un negozio giuridico “non recettizio”, in quanto esaurisce i propri effetti nella sfera stessa del rinunciante (Cass. 18 agosto 2004, n. 16168).
Come poteva, dunque, un “atto” di quel genere incidere su un contratto – un accordo bilaterale – teoricamente e sostanzialmente ancora in essere? Infatti, è bene rammentare come il lavoratore, nel pieno esercizio di suo diritto potestativo (Cass. 26 ottobre 2018, n. 27294), avesse già perfezionato un precedente negozio unilaterale “recettizio”, cioè le dimissioni, con efficacia – vale a dire la produzione dell’effetto tipico, consistente nella risoluzione del rapporto – differita a un momento successivo (per analogia, sull’effetto “disgiunto” del licenziamento, Cass. 3 aprile 2019, n. 9268, Considerato che, sub 12) ovvero, presumibilmente, decorso il termine del preavviso contrattualmente previsto.
La Corte, quindi, sembra che confonda l’istituto del preavviso con l’atto di recesso (si veda il lapsus al punto 8.1: «costituisce comune affermazione che in tema di rapporto di lavoro a tempo indeterminato l’istituto del recesso – disciplinato dall’articolo 2118 c.c.» […]), mentre nota e ontologica ne è la differenza giuridica, essendo il preavviso esclusivamente «un istituto volto a trasformare il contratto di lavoro a tempo indeterminato, assegnandogli un termine finale» (Cass. 21 maggio 2007 cit., Motivi della decisione, sub 3).
Peraltro, si evidenza che è la medesima giurisprudenza della Corte citata a evidenziare l’ininfluenza di eventuali avvenimenti sopravvenuti successivamente alla ricezione dell’atto di recesso (sempre, Cass. 21 maggio 2007 cit., Motivi della decisione, sub 3) fatti salvi, nel principio generale di libertà negoziale, accordi – e non atti unilaterali – differenti, eventualmente intervenuti fra le parti (per analogia, sugli effetti della revoca delle dimissioni, Cass. 28 maggio 2021, n. 14993, Motivi della decisione, sub 3.3.).
In conclusione, da quanto sopra, anche nei riguardi della pronuncia in commento, sembrano potersi efficacemente contrapporre e riaffermare risalenti obbiezioni proposte, sul punto, dalla giurisprudenza di merito ovvero che «le aspettative e i diritti facenti capo al lavoratore dimissionario diligente nel periodo di preavviso, non possono essere frustrate dall’interesse e volontà datoriale a non utilizzare le prestazioni lavorative offerte, onde [l’eventuale] esonero pone il datore stesso in condizione di mora senza liberazione dalle obbligazioni per legge incombentegli» (cfr. Trib. Padova 7 marzo 2019, n. 181, in RIDL, 2019, n. 2, p. 388 e ss., con nota di V. Del Gasio, Del Gaiso, Dimissioni del lavoratore: il datore può rinunciare al preavviso senza corrispondere l’indennità sostitutiva).
Federico Avanzi
ADAPT Professional Fellow