Dinamiche salariali sulla produttività: riduzione orario lavoro e salario minimo a 9 euro

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Bollettino ADAPT 21 marzo 2022, n. 11
 
1. “Lavorare meno, lavorare tutti”? La comparazione con gli altri Paesi
 
Nell’ultimo periodo nel dibattito politico italiano è tornata in voga la discussione in merito ai possibili benefici, dal punto di vista dell’aumento del numero di occupati, della riduzione del numero di ore di lavoro per lavoratore, sintetizzata dallo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”.
 
La teoria in questione, tuttavia, non sembra comunque trovare riscontro nei Paesi in cui sono state approvate – in passato – riforme in merito alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
 
In primis, analizzando la riforma avvenuta in Francia negli anni ’80, la quale ha ridotto le ore settimanali da 40 a 39 a salario invariato, non si rileva un effetto positivo sull’occupazione, anzi: risulta esserci stato un aumento del rischio di disoccupazione, causato dal costo orario più elevato.

Inoltre, anche nelle esperienze avutesi in Québec e in Cile (nella regione canadese l’orario di lavoro è stato ridotto da 44 a 40 ore, mentre nello stato sudamericano le ore lavorative sono scese da 48 a 45 ore) gli studi non hanno rilevato alcun aumento del numero degli occupati.
 
Al contrario, un’eccezione a tale trend sembra essere rappresentata dal Portogallo: la riforma che alla fine degli anni ’90 ha ridotto da 44 a 40 le ore di lavoro settimanali ha provocato la diminuzione del tasso di “distruzione” di posti di lavoro (licenziamenti o chiusure aziendali) con un effetto positivo sul totale degli occupati. A tal proposito, gli studiosi tentano di spiegare tali risultati – in controtendenza rispetto agli altri Paesi – con i vasti margini di flessibilità di aggiustamento dell’orario di lavoro dati in Portogallo dalla riforma in questione.
 
Alla luce di tali esperienze, pertanto, in Italia parte della dottrina non ritiene utile l’introduzione – con un intervento legislativo – di riforme volte a ridurre ex lege per tutti i lavoratori il numero di ore a parità di salario.
 
2. La riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento di produttività
 
In ogni caso, nonostante dal punto di vista empirico la riduzione dell’orario di lavoro non comporti un aumento del numero di occupati, secondo alcuni autori tale misura avrebbe –comunque – quale conseguenza, quella di un aumento della produttività del lavoro.

In particolare, tale aumento si manifesterebbe in 3 diversi aspetti:

a) fisiologici;

b) motivazionali;

c) organizzativi.
 
Con riferimento ai primi, gli stessi consistono nella circostanza che una riduzione dell’orario di orario permette ai dipendenti, in quanto meno soggetti a sforzi e stanchezza, di concentrarsi maggiormente, così che la loro produttività complessiva per ora lavorata aumenterà. Per quanto concerne gli effetti motivazionali, invece, questi riguardano l’apprezzamento dei lavoratori per gli orari più brevi, così da lavorare in maniera più efficiente nell’orario di lavoro rimanente. Infine, un ulteriore miglioramento arriverebbe dal miglioramento dell’organizzazione del lavoro: una riduzione dell’orario di lavoro non potrebbe che comportare, difatti, una revisione in melius delle modalità di organizzazione dell’impiego, facilitando così il relativo processo di lavoro e permettendo ai lavoratori di fare di più in un lasso temporale inferiore rispetto a prima.
 
Tale teoria, inoltre, sembra essere confermata dai dati Ocse: analizzando tali dati, risulta che più una nazione è ricca, meno sono le ore di lavoro.
 
A proposito del salario minimo, negli ultimi tempi sempre più eclatante risulta essere il dibattito in tema di minimi legali salariali.
 
3. Il salario minimo legale. Le proposte in Italia e legislazione attuale in Europa in merito
 
Il salario minimo legale costituisce l’ammontare di retribuzione minima che, per legge, un lavoratore riceve per il lavoro prestato in un determinato arco temporale e che non può essere in alcun modo ridotto da accordi collettivi o da contratti privati. Si tratta, quindi, di una soglia limite di retribuzione, al di sotto della quale il datore di lavoro non può discostarsi.
 
Da diverso tempo, ormai, in Italia si discute sulla scelta di riservare anche alla legge il compito di determinare il livello minimo di salario e non solo alla contrattazione collettiva, così come avviene oggi.
 
Numerose sono state le proposte di disciplina del salario minimo ma, per ora, nessuna è stata approvata né ha trovato il consenso tra le parti sociali. Un’ ultima proposta è stata formulata sia dal leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, che dal segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ampiamente condivisa, peraltro, dal segretario della CIGL Maurizio Landini, che ha sottolineato l’importanza del salario minimo quale strumento necessario al fine di scongiurare un ritorno “al periodo pre pandemia”. In proposito, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, si è espresso in modo favorevole riguardo alla possibilità di riconoscere che una quota di retribuzione minima, pari a nove euro lordi, potesse risultare determinante “soprattutto per donne e giovani”. Fratelli d’Italia e Forza Italia, d’altro canto, si sono opposti alla proposta, così come il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, secondo il quale con l’introduzione del salario minimo vi è il rischio tangibile di una fuga delle aziende dalla contrattazione collettiva, riaccendendo così il dibattito politico.
 
Nei principali paesi europei esiste già il “minimo salariale”, fissato dalla legge, ad eccezione dei Paesi del Nord Europa, dell’Austria ed, appunto, dell’Italia, Paesi questi caratterizzati dalla contrattazione collettiva. A tal proposito, il Parlamento europeo ha proposto una prima direttiva sul salario minimo con il chiaro intento di assicurare che i lavoratori dell’UE siano adeguatamente retribuiti allo scopo di garantire loro le minime condizioni di vita e di lavoro.
 
Originariamente questo progetto non era ben visto poiché, nel nostro paese, i minimi salariali non sono mai stati previsti dalle legge, bensì solo dalla contrattazione collettiva, sebbene numerosi sono stati i tentativi normativi di garantire la tutela dei lavoratori; non ultimo, in ordine di tempo, quello riconducibile  alla delega dell’art.1, com.7, lettera g, della L. n.183/2014, tuttavia mai attuata, ove si contemplava l’ipotesi dell’introduzione di un compenso orario minimo in tutti quei settori non coperti da contrattazione collettiva, prevedendo in tal modo un salario minimo legale. Per ottenere questi obiettivi, non potendo fissare un salario minimo legale uniforme, la direttiva europea muove su due direzioni: da un lato con un salario minimo legale e dall’altro con la contrattazione collettiva. Nello specifico, con il provvedimento si vuole ulteriormente incrementare e valorizzare il ruolo della contrattazione collettiva estendendola almeno all’80% dei lavoratori ed incentivando il livello di affiliazione ai sindacati.
 
Non tutte le voci sono favorevoli all’introduzione del salario minimo. In questa direzione le aziende potrebbero dare meno importanza ai contratti collettivi nazionali che regolano altri importanti aspetti del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Regolano, ad esempio, l’inquadramento professionale, l’orario di lavoro, la sicurezza sul luogo di lavoro e la formazione. Inoltre, una norma generale sulla retribuzione potrebbe indurre le aziende ad abbassare quegli stipendi che precedenti conquiste erano riusciti a portare su standard più alti. Il salario minimo, infatti, sarebbe più basso dei minimi contrattuali di tantissime categorie come ad esempio edili e infermieri. Questo indebolirebbe il concetto stesso di contrattazione collettiva, quindi, i sindacati richiedono prima una legge che definisca i concetti di rappresentanza e contrattazione ed in seguito il salario minimo.
 
Particolare attenzione merita il modello tedesco del salario minimo che fu introdotto definitivamente nel 2015 durante il terzo governo Merkel. La legge fissava la paga base a 8,5 euro l’ora. Anche qui la misura era stata introdotta perché i contratti nazionali non riuscivano più a coprire e disciplinare le nuove forme di lavoro emergenti (i cosiddetti minijobs). Nel dibattito pubblico che aveva accompagnato l’approvazione della legge, gli oppositori della misura temevano che questo avrebbe comportato un aumento del costo del lavoro per le imprese, una diminuzione della loro competitività nonché il conseguente arrivo di numerosi licenziamenti.
 
Tuttavia, diversi studi condotti sull’impatto del salario minimo in Germania, hanno rappresentato un quadro del tutto diverso. Infatti, la ricerca ha evidenziato come i lavoratori (circa il 15% degli occupati) che prima della legge del 2015 ricevevano uno stipendio più basso, non solo hanno visto crescere il loro salario, ma sono stati anche motivati ad intraprendere un percorso verso posizioni meglio retribuite.
 
“Come dimostrato da questi studi le imprese traggono beneficio dalla misura. Se aumentano gli stipendi le aziende sono incentivate a competere non più attraverso la compressione dei salari, ma investendo in tecnologia e sviluppo con un conseguente aumento della produttività”, racconta a Internazionale Guendalina Anzolin, ricercatrice del King’s College di Londra.
 
Gianmaria Russo

ADAPT Junior Fellow
 
Aniello Abbate

ADAPT Junior Fellow

@anycharisma

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