Opportunamente archiviata, almeno per ora, la pericolosa suggestione dottrinale del contratto unico a tempo indeterminato, il Governo Renzi prende di petto il nodo dell’apprendistato che, molto saggiamente, viene riconfermato quale contratto privilegiato per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Contenuti, tempi e metodo appaiono tuttavia sbagliati e forse anche controproducenti almeno per chi conosca la ingloriosa fine, per mano della Corte di Giustizia Europea, dei contratti di formazione e lavoro.
L’idea di fondo, è che l’apprendistato non decolli per colpa di vincoli e oneri di natura burocratica, tanto a livello nazionale che regionale. Così, però, può ragionare – dopo il Testo Unico del 2011 e i correttivi che si sono via via succeduti sino agli ultimi concordati in conferenza Stato-Regioni lo scorso 20 febbraio – solo chi pensa che la formazione in sé sia un onere: un impiccio pratico che frena le imprese dall’utilizzo di uno strumento contrattuale pure fortemente incentivato (Cfr. U. Buratti, L. Petruzzo, M. Tiraboschi, Incentivi apprendistato: guida ragionata alle misure nazionali e regionali). Così si spiega, almeno stando alle informazioni rese note dal Ministero del lavoro sul proprio sito internet, la proposta di eliminazione della formalizzazione del piano formativo individuale che pure dovrebbe guidare l’impresa e il tutor aziendale nella costruzione di un percorso di apprendimento. Questo, per essere tale, non si può basare su una mera esperenzialità on the job, quanto piuttosto su precisi standard professionali e formativi declinati dalla contrattazione collettiva di riferimento e dagli standard formativi pubblici, almeno per alcune tipologie di apprendistato ampiamente diffuse in altri Paesi e da tutti indicate come paradigma di riferimento a cui ispirarsi. Ancor più grave, invero, pare il venir meno della obbligatorietà della offerta formativa pubblica di tipo trasversale, che già era stata degradata, per la sua inefficienza, dalle 120 annuali della legge Biagi alle 120 ore nell’arco del triennio, riducibili ulteriormente a 40 in caso di laureati, secondo quanto disposto in alcune Regioni e ora nelle linee-guida dello scorso 20 febbraio. Praticamente, otto giorni di formazione pubblica, interna o esterna alla impresa, nell’arco di un triennio, da svolgersi tendenzialmente nella fase iniziale del rapporto di lavoro. Davvero poca cosa, e non certo ostativa dell’avvio di percorsi di apprendistato, pur tuttavia sufficiente ad evitare il rischio di una censura da parte delle Istituzioni comunitarie ai sensi della già richiamata normativa in materia di aiuti di Stato. Il rischio della degradazione dell’apprendistato, almeno quello professionalizzante, in un contratto di formazione e lavoro dal valore puramente di inserimento è del tutto evidente con gravi rischi per le imprese italiane di vedere replicata sulla loro pelle la dolorosa vicenda con l’obbligo di restituzione degli incentivi indebitamente percepiti perché contrari al diritto comunitario della concorrenza (Cfr., M. Tiraboschi, Aiuti di Stato e contratti di formazione e lavoro nella decisione della Corte di Giustizia del 7 marzo 2002: sentenza annunciata, risultato giusto).
La stessa opzione di intervenire, a quanto è dato capire, unicamente sull’apprendistato professionalizzante o di mestiere è indicativa della valenza politica e culturale oltre che pratica dell’intervento. Nonostante la persistente e oramai stucchevole enfasi sul modello tedesco, e persino una formale intesa di cooperazione tra Ministero del lavoro italiano e Ministero del lavoro tedesco, nessun intervento è infatti ipotizzato sull’apprendistato “scolastico” (incentrato su una robusta alternanza e integrazione tra scuola e lavoro), e tanto meno sull’apprendistato di alta formazione per percorsi di scuola secondaria superiore e per l’alta formazione universitaria (rispettivamente artt. 3 e 5 del d.lgs. n. 167/2011). Eppure, come puntualmente documentato nei preziosi rapporti Isfol di monitoraggio dell’apprendistato, sono queste le due tipologie che ancora non decollano. E ciò nonostante siano presenti nel nostro ordinamento dall’oramai lontano 2003, anno di approvazione della legge Biagi, e rappresentino, a livello comparato, l’idealtipo cui dovrebbe protendere l’evoluzione dell’istituto nella costruzione, di concerto con imprese e sindacati, di un vero e proprio sistema dell’apprendistato. Il tutto, peraltro, senza alcun preventivo concerto con le Regioni, che hanno subito in modo unilaterale l’iniziativa del Governo, lasciando così prospettare l’ennesimo ricorso alla Corte Costituzionale come già avvenuto nel 2008 per un intervento invero più timido e modesto del Governo sulla formazione pubblica esterna o interna alla impresa.
Di poco peso, anche se condivisibile, la previsione che elimina l’obbligo, introdotto dalla Legge Fornero, ma pur sempre presente in quasi tutti i contratti collettivi, di condizionare l’assunzione di nuovi apprendisti alla conferma in servizio di una percentuale di quelli assunti in precedenza. Questo continuo fare e disfare non aiuta certo le imprese ad avvicinarsi all’apprendistato, perché tra riforme, controriforme, circolari, interpelli e interventi della Corte Costituzionale, lo si è reso una sorta di tela di Penelope.
Di maggior peso potrebbe invece essere la previsione, plausibilmente riferita all’apprendistato di primo e terzo livello, per cui la retribuzione dell’apprendista, per la parte riferita alle ore di formazione, sia pari al 35% della retribuzione del livello contrattuale di inquadramento, anche se si tratta di materia che avrebbe dovuto essere più propriamente affidata al sistema di relazioni industriali. Anche in questo caso, tuttavia, le parti sociali pagano una storica inerzia su quello che è uno dei veri nodi del mancato decollo in Italia dell’apprendistato e cioè la fissazione di tariffe retributive coerenti, come avviene nel resto d’Europa, con il peso e l’onere di una formazione vera e di qualità. Certo è che questa misura impatta ora, in negativo, sui pochi contratti collettivi che erano intervenuti con puntualità in materia.
Tabella 1. Apprendistato: rapporto retribuzione-inquadramento contrattuale e impegno formativo
Industria |
Servizi |
Altri settori |
||
Regno Unito |
2005 |
46% |
70% |
Da 45% (parrucchieri) a 60% (commercio) |
Germania | 2007 |
29% |
34% |
27% |
Svizzera | 2004 |
14% |
17,5% |
18% |
Irlanda | 2009 |
30% (1° anno), 45% (2°), 65% (3°), 80% (4°) |
||
Francia(% salario minimo) | 2010 |
25% (sotto 19 anni), 42% (20-23 anni), 78% (sopra 24 anni) |
||
Italia | 2010 |
72% (2 livelli inferiori) |
da 70% a 80% (2 livelli inferiori) |
Artigianato: dal 55% a 90% Edilizia: da 60% a 85% (in 3 anni; + 10% anno circa) |
In attesa di valutare la reazione delle Regioni e forse anche della Corte di Giustizia, con interventi che non poco potrebbero incidere sulla reale propensione delle imprese a invertire la tendenza in materia di apprendistato, resta il fatto che lo stesso pacchetto di misure prevede ora, con la liberalizzazione del contratto a termine, un temibile concorrente rispetto al più oneroso (almeno dal punto di vista gestionale e operativo) apprendistato, senza dimenticare inoltre che un vero freno all’apprendistato è oggi da rinvenirsi nella riforma degli stage che sono stati ampiamente liberalizzati dalla riforma Fornero (cfr. Giuseppe Bertagna, Umberto Buratti, Francesca Fazio e Michele Tiraboschi, La regolazione dei tirocini formativi in Italia dopo la legge Fornero. L’attuazione a livello regionale delle Linee-guida 24 gennaio 2013: mappatura e primo bilancio). Cosa può infatti indurre una impresa a ricorrere a un più strutturato e oneroso apprendistato quando ha a disposizione tirocini di durata tra sei e dodici mesi con ridotti oneri formativi e gestionali e con un costo inferiore di almeno un terzo? Nelle materie del lavoro, Matteo Renzi ha duramente respinto il metodo della concertazione visto come un freno al cambiamento e alla modernizzazione del Paese. Eppure, proprio uno strumento delicato come l’apprendistato, per funzionare, ha bisogno di una forte concertazione e di quel consenso di tutti gli attori interessati che solo può consentire di costruire quello che ancora manca al contratto di apprendistato: un sistema, anzi il sistema dell’apprendistato come strategia di programmazione dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro in ragione delle competenze e dei saperi di cui i lavoratori hanno bisogno per essere occupabili e le imprese per vincere la sfida dei mercati globali. Tutto il resto sono scorciatoie come i finti stage e i contratti a termine acausali che, per quanta flessibilità possano concedere alle aziende, mai saranno in grado di consentire loro di vincere una sfida basata sempre più sul valore e sulle competenze della forza lavoro di cui si dispone.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
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