In ADAPT studiamo da tempo il filone di ricerca sul rapporto tra lavoro e malattie croniche, con l’obbiettivo di trovare soluzioni che servano a conciliare i bisogni di cura dei malati cronici con lo svolgimento di una prestazione lavorativa, riducendo al minimo l’onere per l’imprese (Cfr. M. Ti- raboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, in Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n. 36/2015). Tuttavia, gli ultimi sviluppi normativi in materia di licenziamento non prestano sufficiente attenzione alle specifiche esigenze di questi lavoratori, disincentivando la loro permanenza nel mercato del lavoro (Cfr. Fernández Martínez, S., Jobs Act e malattia: verso un diritto per il mercato del lavoro?, Bollettino ADAPT, 26 ottobre 2015). Esistono invero altre proposte legislative che intendono rafforzare le tutele a favore dei lavoratori che soffrono di malattie croniche, facilitando di conseguenza la conservazione del posto di lavoro (Cfr. Fernández Martínez, S., Una proposta per modificare la disciplina del periodo di comporto e garantire la conservazione del posto di lavoro dei malati cronici, Bollettino ADAPT, 14 dicembre 2015). Per tale ragione, risulta essenziale un confronto con le associazioni di tutela e rappresentanza dei malati cronici e dei disabili che conoscono nel dettaglio i bisogni e le attenzioni che richiedono quanti soffrono di malattie croniche. Per questo motivo, nel corso del nostro lavoro di studio, ricerca e progettazione abbiamo incontrato anche in altre occasioni (Cfr. Silvaggi, F., Rapporto tra malattie croniche e mercato del lavoro – A tu per tu con Elisabetta Iannelli, Bollettino ADAPT, 19 agosto 2015), l’avvocato Elisabetta Iannelli che è Vicepresidente di AIMaC (Associazione Italiana Malati di Cancro, parenti e amici) e Segretario Generale di FAVO (Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia). In questo caso, approfondiamo il tema degli accomodamenti ragionevoli, argomento centrale e di grande attualità per la reale inclusione lavorativa dei malati cronici.
Nella sua opinione, le persone con cancro o con altre malattie croniche, devono essere considerate disabili o rappresentano una categoria a sé indipendente dai disabili?
Il cancro come altre malattie croniche può essere causa di disabilità temporanee o permanenti più o meno gravi, ma caratterizzate da una condizione instabile, evolutiva in senso positivo o, in alcuni casi, ma ancora troppo spesso, negativo.
Potremmo definire le “disabilità oncologiche” come quegli stati di diminuita capacità psico-fisica che creano ostacoli al normale svolgimento delle attività quotidiane a causa degli esiti della patologia tumorale sui diversi organi e apparati o anche in senso sistemico, o a causa degli effetti collaterali delle terapie antineoplastiche i quali possono presentarsi a breve, medio e lungo termine.
Ritengo sia difficile arrivare ad una classificazione univoca delle “disabilità oncologiche” poiché tanti e diversi sono i tipi di tumore e le relative conseguenze invalidanti su chi ne è affetto. Basti pensare alla disabilità derivante da un intervento di laringectomia piuttosto che da un’amputazione di un arto o un intervento di stomia o ancora alle necessità di un malato di cancro al quale sia stato rimosso lo stomaco.
Al malato e all’ex malato oncologico può essere riconosciuta una condizione di disabilità, più o meno grave o temporanea, nelle diverse accezioni giuridiche riconosciute dal nostro ordinamento: invalidità, inabilità, handicap, disabilità ai fini del collocamento obbligatorio, ma queste diverse definizioni sono spesso subite con sofferenza dalle persone malate di cancro che rifiutano l’etichetta della disabilità percepita come un marchio fonte di possibili discriminazioni. Chi si ammala di cancro molto spesso è un “disabile invisibile” per timore dello stigma che affligge questa malattia e ciò è vero tanto più sul posto di lavoro. Vi è poi da dire che le diverse tutele normative previste dal vigente ordinamento per le persone con disabilità, non sono state pensate e scritte per le persone con malattie ad andamento eventualmente evolutivo come il cancro e questo fa sì che le relative tutele giuridiche non rispondano agli effettivi bisogni mutevoli nel tempo di queste persone.
Secondo lei, le persone con cancro devono aver accesso a tutte le tutele previste dall’ordinamento giuridico in materia di disabilità o solo ad alcune?
Non v’è dubbio che quando e nella misura in cui la patologia tumorale o i trattamenti terapeutici antitumorali sono causa di disabilità, debbano essere riconosciute ed applicate tutte le tutele giuridiche che garantiscono i diritti sociali e lavorativi dei malati.
Quale è la sua opinione circa il panorama esistente nel Regno Unito, dove i malati oncologici vengono considerati automaticamente come disabili a effetti di tutela antidiscriminatoria?
In Gran Bretagna, dal 2010, vige una legge (Equality Act) che impone ai datori di lavoro di non discriminare le persone disabili e tra queste anche i malati di cancro. Invero anche l’Italia vanta una normativa a tutela della parità di trattamento sul lavoro che è precedente a quella anglosassone: il decreto legislativo n. 216/2003, recante «Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», integrata dalla legge 99/2013 (di conversione del decreto legge 76/2013) che, tra i diversi emendamenti al testo originale, ha introdotto per la prima volta il concetto di “accomodamento ragionevole”.
Il decreto legislativo n. 216/2003, però, riguarda tutte le persone disabili e, quindi, anche i malati oncologici che vengano riconosciuti tali a seguito del procedimento di accertamento medico legale da parte dell’INPS. Ma superato questo passaggio, che negli anni si è cercato di semplificare e rendere più rapido possibile, la tutela antidiscriminatoria è, anche per la normativa italiana, di natura risarcitoria in termini economici. Certamente, dal punto di vista dello snellimento delle procedure burocratiche, sarebbe preferibile un automatismo nel riconoscimento della disabilità (nelle diverse accezioni di invalidità e di handicap) conseguente alla diagnosi di malattia oncologica e questo non solo per semplificare l’accesso alla tutela antidiscriminatoria in ambito lavorativo ma, prima ancora di questo, per l’accesso ai diversi benefici giuridici ed economici riconosciuti dal nostro ordinamento ai malati oncologici. Il passaggio, però, è complesso e richiede un’attenta e approfondita riflessione anche perché non esiste “il cancro” ma tanti “tipi di cancro” che si diversificano per gravità, effetti invalidanti temporanei o permanenti, possibilità di cura, guarigione o aggravamento nel medio e lungo periodo. Ed infine, non si può sottovalutare la ricaduta psicologica di un automatismo cancro=disabilità per la persona malata che spesso non si sente “disabile” né vuole sentirsi considerata tale.
Secondo lei, quali sono gli accomodamenti del posto di lavoro di cui hanno bisogno le persone con cancro per mantenere la propia attività lavorativa?
I ragionevoli accomodamenti necessari ed auspicabili per i lavoratori malati di cancro possono essere molto diversi da quelli ormai entrati nella pratica comune per gli altri tipi di disabilità, dopo anni di non facili battaglie. Non si tratta, spesso, solamente di rimuovere barriere architettoniche o di dotare la postazione di lavoro di strumenti informatici in grado di supplire ad un deficit visivo o uditivo. Il lavoratore malato di cancro potrebbe aver bisogno di modulare i tempi di lavoro per conciliarli con quelli delle cure e delle visite mediche o diagnostiche, oppure anche per consentire tempi di recupero delle ridotte capacità psicofisiche, quantomeno durante le fasi acute di malattia, quando i trattamenti terapeutici sono più pesanti. Ma anche nelle fasi successive di cronicizzazione o di assenza di malattia, il lavoratore potrebbe soffrire di disturbi cognitivi che richiedono tempi di lavoro meno intensi o una maggiore flessibilità oraria o di luogo di svolgimento della prestazione lavorativa. In questi casi strumenti come il part-time, l’orario flessibile o il telelavoro possono essere considerati ragionevoli accomodamenti che soddisfano le esigenze del lavoratore come quelle del datore di lavoro.
Le diverse tipologie tumorali e le loro conseguenze disabilitanti su chi ne è affetto richiedono risposte personalizzate anche in ambito lavorativo. Basti pensare alle diverse necessità derivanti da un intervento di laringectomia, nel qual caso il malato oncologico deve superare l’ostacolo derivante dal deficit vocale, rispetto a quelle di un lavoratore al quale sia stato rimosso lo stomaco e che quindi deve continuare a lavorare compatibilmente con l’esigenza di fare pasti ripetuti e ravvicinati; oppure alle esigenze di un lavoratore stomizzato al quale deve essere garantita una postazione di lavoro non distante da idonei servizi igienici, o al lavoratore che a causa di un intervento chirurgico soffra di linfedema agli arti superiori o inferiori, con conseguente limitazione all’uso delle braccia per lavori particolarmente pesanti o che non possa stare in piedi per troppo tempo. Gli ostacoli che si vengono a creare a causa del tumore del lavoratore dipendente, da difficoltà individuale rischiano di diventare crisi aziendale, ma possono essere superati con il dialogo e la comprensione nel reciproco rispetto. È questa la via da percorrere per una reale inclusione sociale e lavorativa di chi lotta per vincere la vita dopo il cancro. Per favorire questa evoluzione culturale AIMaC ha stilato un decalogo, contenuto nella brochure Lavoratori malati di tumore: 10 consigli al datore di lavoro.
I datori di lavoro possono impegnarsi per capire come gestire le diverse disabilità oncologiche sul luogo di lavoro, individuando le mansioni più idonee ed eventualmente adattandone le modalità di svolgimento alle specificità del singolo lavoratore, recuperando in tal modo professionalità che altrimenti potrebbero andare perdute. Alla medicina di precisione o medicina personalizzata devono corrispondere “accomodamenti personalizzati” sul posto di lavoro.
Nella sua opinione, le forme di lavoro flessibile, come il lavoro agile, rappresentano un’opportunità per evitare l’uscita prematura dei lavoratori con cancro del mercato del lavoro?
Il lavoratore che si ammala di cancro desidera continuare a lavorare, non solo per necessità economiche ma proprio per affermare di essere ancora vivo, per non perdere la propria identità e far rispettare la propria dignità di persona. Ed è questo il vero valore del lavoro!
Certamente il lavoro agile e le diverse forme di flessibilità sul lavoro sono strumenti utili a rispondere ai bisogni dei lavoratori che si ammalano di cancro ed anche per evitare pensionamenti prematuri per inabilità che, a volte, sono conseguenza di una incapacità, legata all’ignoranza di come gestire il problema cancro sul posto di lavoro in termini di inclusione sociolavorative. Una fuoriuscita non necessaria né veramente voluta dal mondo produttivo genera costi altissimi umani ed economici per il singolo e per la collettività che sarebbe molto meglio evitare. L’inclusione ed il reinserimento lavorativo devono essere intesi non come costi ma come un vero e proprio investimento anche perché la persona che si è dovuta confrontare con una malattia grave come il cancro e lo ha superato ha certamente una marcia in più nel saper affrontare e gestire grandi e piccole problematiche nella vita quotidiana e, quindi, anche in ambito lavorativo, costituisce una risorsa e non un peso per la società.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo
@Silvia_FM_