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Bollettino ADAPT 20 maggio 2019, n. 19
Il 7 febbraio scorso è stato presentato in Senato il DDL n. 1047, un testo che ha il dichiarato obiettivo di “adeguare la disciplina vigente in materia di prostituzione al radicale mutamento che il fenomeno ha avuto nel corso degli ultimi anni”. La relazione di accompagnamento spiega l’esigenza di regolare l’esercizio della prostituzione – come se fosse un lavoro da sottoporre a controllo pubblico – in ragione del fatto che il fenomeno della prostituzione è fortemente intrecciato col traffico illegale di esseri umani, assumendo così i connotati drammatici e pericolosi di un’attività gestita da organizzazioni criminali. Allo stesso tempo, si sta rivelando una fonte sempre più cospicua di proventi economici illeciti. Per contrastare questa degenerazione, lo schema di disegno di legge impone il divieto di esercizio della prostituzione in luoghi pubblici o aperti al pubblico in comuni con meno di 10.000 abitanti; stabilisce la necessità dell’iscrizione in un apposito registro previo ottenimento dell’autorizzazione del questore competente; predispone l’obbligo di controlli sanitari periodici per le esercenti; delinea progetti di prevenzione e di recupero da affiancare a misure per contrastare la tratta delle persone.
Il documento solleva problematiche di ordine economico e giuridico, che non interessa però evidenziare in questa sede. A fondo del problema, vi sono infatti due questioni di carattere antropologico che ci paiono pregiudiziali, e che tuttavia non sono ancora state affrontate dal dibattito pubblico.
La proposta corre il rischio, in primo luogo, di liquidare una delicatissima questione legata all’uso del corpo (di regola di una donna, ma non necessariamente), in una banale questione di decoro urbano; in secondo luogo, quantomeno rispetto ai presupposti dell’intervento, la proposta dedica poca attenzione alla messa a punto di strategie in grado di contrastare le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici di esseri umani, sottraendo così le ragazze che finiscono vittime di tratta da un’indegna condizione di schiavitù.
Ma non è forse questo un agire politico che, lungi dal prefiggersi la tutela della dignità umana e della libertà personale, si configura solo come angusta difesa degli interessi materiali o rituale comportamento elettorale? Così facendo, non si assiste alla dissoluzione dell’agire politico nell’ambito di un’indistinta sfera del fare, in un’ottica generale di salvaguardia degli interessi materiali a preferenza della protezione della tutela dei singoli individui?
A questo proposito, può essere utile far riferimento al saggio “Vita activa”, pubblicato da Hanna Arendt negli Stati Uniti nel 1958 con il titolo “The human condition” (l’edizione italiana cui faccio riferimento è edita da Bombiani nel 2017).
Con il termine “vita activa” l’autrice si propone di designare tre fondamentali attività umane: l’attività lavorativa (labour), l’operare (work) e l’agire (action). “L’attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano. […] L’operare è l’attività che corrisponde alla dimensione non-naturale dell’esistenza umana. […] L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità. (p. 40-41).
Se concepito come un’attività di lavoro autonomo, l’esercizio volontario della prostituzione potrebbe essere assimilabile al concetto di “action” arendtiano nel significato di “cominciare, mettere in movimento” (p. 195), che corrisponde al fatto umano della nascita.
Scrive Arendt: “Con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale. Questo inserimento non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non ci è suggerito dall’utilità, come l’operare. Può essere stimolato dalla presenza di altri di cui desideriamo godere la compagnia, ma non è mai condizionato.” (p. 195)
Prosegue: “L’Inserimento nel mondo scaturisce da quel cominciamento che corrisponde alla nostra nascita, e a cui reagiamo iniziando qualcosa di nuovo di nostra iniziativa. Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa” (p. 195). L’azione si fonda su un’iniziativa personale, svincolata tanto da necessità materiali quanto da implicazioni utilitaristiche. È solo nella dimensione dell’azione che si colloca per l’uomo la possibilità dell’esercizio della libertà.
Dunque la prostituzione quale atto che riflette una scelta autonoma e consapevole di disporre a proprio piacimento del proprio corpo, dettata unicamente dalla volontà di perseguire un’autonomia relazionale o la fruizione del piacere sessuale, può a diritto essere classificata come un’azione libera.
Prendendo atto del fatto che il documento legislativo si pone l’obiettivo di “introdurre una regolamentazione dell’attività stessa che, lungi dal prefigurarla sempre come un’attività illecita, ne consenta una qualche forma di controllo da parte dell’autorità pubblica” (p. 2) forte della scelta libera di quelle donne che decidono autonomamente di prostituirsi. I vantaggi, in termini non solo di decoro e tranquillità urbana, ma anche di prevenzione e sanità pubblica, sarebbero certo evidenti.
Tuttavia, la libertà di disporre del proprio corpo condurrebbe inevitabilmente ad una mercificazione dello stesso in quanto strumento di lavoro, dotato quindi di un valore di scambio. La difesa del principio della libertà personale tout court non sembra quindi sufficiente per scongiurare un uso disinvolto del proprio corpo come mero mezzo per ottenere uno scopo, in questo caso un guadagno. Per ovviare al rischio occorre porre dei limiti al principio stesso di libertà, riscontrabili nel valore della dignità umana e dell’integrità morale personale. In quest’ottica, il lavoro non può essere considerato un’entità indipendente dalla persona del lavoratore, per cui il rapporto di lavoro deve poggiare anche su un fondamento etico e non può essere perciò regolato solo dal mercato. Lo scenario da aborrire è quello di un mercato universale che trasforma il nostro mondo di persone concrete, la cui individualità si esprime in una serie di attributi personali specifici, in un mondo di entità disincarnate, prive di soggettività e di emotività: un mondo di oggetti. Di questo il legislatore dovrebbe tener conto.
Il secondo problema di carattere antropologico che emerge dal documento in questione riguarda invece la scarsa considerazione prestata alla definizione di piani che possano contrastare efficacemente il traffico illegale di prostitute da Paesi meno sviluppati economicamente, e di conseguenza la scarsa attenzione alla violazione di libertà di quella massa crescente di ragazze che vengono schiavizzate.
Se, infatti, si può parlare della prostituzione come di un’attività lavorativa per chi sceglie di praticarla liberamente, ciò non vale per chi si vede costretto a prostituirsi. In questo caso, l’esercizio della prostituzione può essere annoverato nella categoria arendtiana di “labour”, insieme a tutte quelle svariate occupazioni intraprese dall’uomo con il solo scopo di sovvenire alle necessità della vita. Scrive Arendt: “L’attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività lavorativa. La condizione umana di quest’ultima è la vita stessa.” (p. 40)
Si tratta, dunque, di tutta quella serie di attività finalizzate al sostentamento che accomunano l’uomo a qualunque altra specie animale. Lavorare per sopravvivere significa infatti essere schiavi dei bisogni materiali. Nel lavoro così inteso non si dà libertà, come si intuisce nel caso di tutte quelle donne immesse con la forza nei circuiti della prostituzione, o che scelgono di praticare questa attività perché costrette da indigenza e povertà, materiale o culturale. Spogliate di umanità, sono costrette a far fronte alle esigenze biologiche alla stregua di qualunque specie animale, senza la prospettiva di prendere parte a spazi capaci di restituire loro la dignità che si conviene a ciascun uomo.
Il problema del contrasto dei traffici illegali di donne e bambine destinate al mercato del sesso rimanda alla questione, ancor più complessa, del controllo e della gestione dei flussi migratori, trattandosi per lo più di ragazze provenienti da Paesi economicamente svantaggiati. Non si tratta, cioè, di regolamentare semplicemente il fenomeno della prostituzione, ma di assicurare a ciascuna donna la possibilità di scegliere autonomamente una professione non solo legale, ma anche dignitosa e appagante. Un’azione dunque, nel senso arendtiano del termine.
La sfida posta dinnanzi al legislatore è di portata epocale, e richiede al legislatore lo sforzo di anteporre alla salvaguardia degli interessi materiali della politica, la tutela dei diritti umani della persona.
Cecilia Leccardi
Università Vita-Salute San Raffaele di Milano