Niente più richiamo alle declaratorie dei contratti collettivi nazionali per individuare i casi di licenziamenti disciplinari che possono dare luogo alla reintegra. La tutela reale scatterà solo con riferimento all’insussistenza del fatto materiale grave.
Si stanno completando i tasselli del testo del Dlgs sul contratto a tutele crescenti per i neo assunti, con la nuova disciplina sui licenziamenti, che andrà al consiglio dei ministri della prossima settimana (ma non è esclusa un’accelerazione già per dopodomani) per essere subito dopo sottoposta al parere delle commissioni Lavoro di Senato e Camera. I tecnici di Palazzo Chigi e ministero del Lavoro avrebbero raggiunto un’intesa di massima per limitare il campo d’azione della tutela reale nei licenziamenti disciplinari (il nodo più spinoso della riscrittura dell’articolo 18).
Attualmente, per effetto della legge Fornero, la reintegra nei licenziamenti disciplinari scatta in due ipotesi: se il fatto contestato non sussiste, oppure se rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa (cioè la sospensione del rapporto di lavoro invece del licenziamento) sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari. Il richiamo ai Ceni da parte della legge 92 del 2012 avrebbe dovuto essere risolutivo, ma non lo è stato: in molti casi ha creato incertezze interpretative, poiché in diversi contratti le infrazioni che determinano sanzioni conservative sono indicate in modo molto generico, ampliandola discrezionalità dei giudici. Anche il richiamo alla mera insussistenza del fatto ha generato incertezze: i giudici del lavoro hanno disposto la reintegrazione non soltanto quando hanno rilevato la radicale insussistenza del fatto contestato, cosa assai rara, ma anche quando, pur essendo confermato il “fatto materiale”, hanno ritenuto che non sussistesse il “fatto giuridico”, cioè la piena colpa del lavoratore, oppure la perfetta corrispondenza tra il fatto e la contestazione. Così, per esempio, in caso di ritenuta sproporzione tra il licenziamento irrogato e la colpa addebitabile è quasi sempre scattata la reintegra.
Di qui l’orientamento nel senso di limitare la tutela reale al solo caso di insussistenza dal fatto materiale, grave. La differenza rispetto ad oggi sarebbe questa: la reintegrazione non potrebbe essere più disposta nei casi e sono la grande maggioranza nei quali il giudice ritiene il licenziamento ingiustificato, pur essendo il fatto contestato dimostrato, per difetto dell’elemento del dolo, o per temporanea incapacità di intendere del lavoratore, o per qualche attenuante ravvisabile nel caso concreto. S e invece il fatto non è mai avvenuto (un lavoratore è accusato di furto, ma si dimostra che non ha rubato) scatta la reintregra. In tutti gli altri casi verrà pagato un indennizzo, ridotto in proporzione della colpa del lavoratore.«La soluzione ipotizzata dal governo è certamente un passo in avanti rispetto alla situazione attuale ha commentato Roberto Pessi, professore di diritto del lavoro alla Luiss di Roma ma non si eliminala discrezionalità del giudice». Per eliminare la discrezionalità dei giudici, si sta valutando di introdurre una clausola di opting out, consentendo anche all’impresa sanzionata con la reintegra, di optare per l’indennizzo (possibilità oggi lasciata al solo lavoratore) pagando oltre alle 24 mensilità un risarcimento ulteriore fino a n mensilità. Per i licenziamenti economici illegittimi, invece, scatterà sempre l’indennizzo: l’ipotesi è di riconoscere 1,5 mensilità per ogni anno di servizio fino a 24 mensilità massime (e un minimo tra 3 e 6 mesi). È ammessa la possibilità, per il datore di lavoro, di offrire la cosiddetta conciliazione standard (mutuata dall’esperienza tedesca della legge Hartz IV, del zoo5), nei termini di i una mensilità per ogni anno di servizio con un tetto di 18 mensilità.
«Quello che vogliamo innescare con questa riforma ha spiegato Pietro Ichino (Sc), professore di diritto del lavoro alla Statale di Milano è un mutamento profondo nella cultura del lavoro diffusa in Italia: voltar pagina rispetto alla cultura della job property. E al tempo stesso una capacità effettiva di tutte le persone di usare il mercato del lavoro come fonte di potere negoziale nei confronti delle aziende e come garanzia di libertà: anche la libertà di andarsene da un’azienda dove si è trattati male, o dove il proprio lavoro non è valorizzato come potrebbe, perché si dispone di una alternativa migliore».