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Bollettino ADAPT 19 aprile 2022, n. 15
Con decreto del 23 marzo 2022, il Tribunale di Roma si è pronunciato sul ricorso proposto in via di urgenza, ai sensi dell’art. 38, D.Lgs. 198/2006, da due assistenti di volo, che avevano qualificato la condotta della neocostituita compagnia di volo discriminatoria in quanto, nell’ambito del piano di assunzione, non avrebbe preso in considerazione la loro candidatura, poiché in stato di gravidanza.
La fattispecie della discriminazione della lavoratrice gestante costituisce una forma di discriminazione fondata sul genere e tutelata, nello specifico, dall’art. 25, comma 2-bis, del Codice delle Pari Opportunità (D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198), che ritiene discriminatorio “ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”. Sebbene tale specifica previsione potrebbe sembrare a prima vista quasi superflua, in quanto la gravidanza riguarda unicamente la donna, facendola automaticamente ricadere entro il perimetro della discriminazione di genere, la ratio di tale norma è proprio quella di rafforzare ulteriormente l’ambito di operatività della disciplina antidiscriminatoria.
In tale ottica, la decisione del Tribunale di Roma, in commento, ribadisce che la normativa antidiscriminatoria deve ritenersi estesa anche alla fase di selezione e reclutamento, dunque anche ad un momento antecedente alla costituzione del rapporto di lavoro, in virtù di quanto espressamente previsto dall’art. 25 del Codice delle Pari Opportunità. La tutela antidiscriminatoria comprende, quindi, anche la fase di accesso al lavoro, non diversamente dalla successiva fase di svolgimento del rapporto di lavoro, e può essere integrata dalla mancata assunzione, così come dalla mancata ammissione a procedure selettive.
La questione di fatto
La questione trae origine dal ricorso promosso da due lavoratrici ai sensi dell’art. 38 D.Lgs. n. 198 del 2006, quali assistenti di volo attive sullo scalo Fiumicino, che avevano presentato domanda per poter partecipare alla selezione del personale di una neocostituita società del trasporto aereo. Le ricorrenti, non essendo state chiamate a partecipare alla selezione, hanno dedotto che la mancata convocazione era da ricondurre al loro stato di gravidanza, tenuto anche conto che altre candidature sullo scalo di Fiumicino e di Linate erano state escluse per la stessa ragione. Le lavoratrici lamentavano, inoltre, che i criteri adottati nella scelta del personale erano del tutto oscuri, avendo la società preferito, peraltro, lavoratrici con minore anzianità ed esperienza sul ruolo lavorativo.
Alla luce di tali fatti, le ricorrenti chiedevano al Giudice del lavoro di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta della società convenuta, consistita appunto nella mancata selezione e successiva assunzione delle stesse a causa del loro stato di gravidanza; chiedevano, inoltre, di emettere ogni più opportuna statuizione ai fini della completa rimozione degli effetti della condotta discriminatoria denunciata e, conseguentemente, ordinare alla convenuta di procedere all’assunzione delle stesse ricorrenti; infine, chiedevano di condannare la società al risarcimento per i danni patiti per effetto della condotta discriminatoria, nonché per la conseguente perdita di chance.
La Società, costituitasi in giudizio, eccepiva anzitutto la inammissibilità del ricorso per assenza di discriminazione in considerazione del fatto che il piano di reclutamento del personale, esplicitato nel verbale di accordo sottoscritto dalla Società e dalle organizzazioni sindacali, fosse all’epoca dei fatti ancora in corso e che, quindi, solo quando il piano assunzionale fosse stato completato, sarebbe stato possibile valutare se la scelta selettiva fosse stata orientata a criteri discriminatori. Aggiungeva la convenuta che, in ogni caso, trovandosi in una fase di start-up, non era tenuta ad osservare alcuno specifico criterio selettivo, fatti salvi quelli concordati con le organizzazioni sindacali, ossia: a) l’esclusione dalla selezione di quanti nell’arco di tempo di sviluppo del piano maturino i requisiti per l’accesso alla pensione; b) l’esclusione di quanti siano privi di adeguata certificazione per lo svolgimento dell’attività lavorativa (green pass e Recurrent Training).
Inoltre, la Società asseriva di essere del tutto estranea alla circostanza dello stato di gravidanza delle ricorrenti e, a conferma del comportamento non discriminatorio dichiarava di aver assunto una lavoratrice in maternità e alcune lavoratrici che, seppure avessero superato il periodo di astensione obbligatoria correlato al settimo mese di vita del figlio, comunque avevano un bambino di età inferiore ai dodici mesi. La medesima, infine, eccepiva che le ricorrenti non avrebbero assolto l’onere probatorio che loro incombe perché non avrebbero fornito elementi di fatto, desumibili anche da dati statistici, che costituiscano indizi precisi e concordanti, anche se non gravi, dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori da parte della società resistente. Alla luce di tali considerazioni, quindi, la Società richiedeva il rigetto del ricorso.
Le ragioni dell’accoglimento del ricorso
Il Giudice, espletata l’attività istruttoria, rileva, anzitutto, che del complessivo piano assunzionale la società resistente ne ha già realizzato oltre la metà e che quindi, non si trovava solo all’inizio della procedura. Inoltre, entrambe le ricorrenti erano in possesso della certificazione verde nonché della certificazione RT: il giudice evidenzia anche che la scadenza di quest’ultima certificazione non era una causa di esclusione dalla selezione, tenuto conto che erano stati già organizzati dei corsi per il rinnovo della certificazione in questione.
Quanto, invece, ai criteri selettivi da osservare, oltre che a quelli individuati dal verbale di accordo, il Giudice di Roma ricorda altresì la presenza di obblighi di legge da rispettare anche nella fase di selezione del personale, tra cui quelli derivanti dalla disciplina antidiscriminatoria. Pertanto, richiamando la disciplina normativa di cui all’art. 27 del D.Lgs. 198 del 2006, l’organo giudicante coglie anche l’occasione di porre in risalto gli orientamenti giurisprudenziali in materia, sia della Corte di Giustizia che della Corte di Cassazione.
In particolare, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha più volte chiarito che l’ambito di applicazione dei divieti di discriminazione investe anche la fase preassuntiva, che lo rende in linea di principio analogo, sotto un profilo assiologico, a quello della perdita del lavoro conseguente al licenziamento (cfr. CGUE 14.3.2017 Bagnaoui C-188/15). Esplicativa sul punto, risulta anche la sentenza CGUE dell’8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker, richiamata dal Tribunale, secondo cui: “un rifiuto d’assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta quindi una discriminazione diretta a motivo del sesso. Orbene, un rifiuto di assunzione dovuto alle conseguenze finanziarie di un’assenza per causa di gravidanza deve esser considerato fondato essenzialmente sull’elemento della gravidanza. Siffatta discriminazione non può giustificarsi con il danno finanziario subito dal datore di lavoro, in caso di assunzione di una donna incinta, durante tutto il periodo d’assenza per maternità“.
I principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo risultano pienamente accolti anche dall’orientamento della Corte di Cassazione, riaffermati da ultimo dalla sentenza 26 febbraio 2021, n. 5476. Il Supremo Collegio, partendo da tali precedenti sovranazionali, ha concluso che “il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza“.
Dagli orientamenti citati, si evince che la tutela antidiscriminatoria comprende la fase di accesso al lavoro, come nel caso della mancata assunzione o ammissione alle procedure selettive per l’assunzione di determinate persone, non diversamente dalla successiva fase di svolgimento del rapporto di lavoro.
In tale quadro, il giudice investito della questione, mette in rilievo che nei procedimenti in materia di discriminazione di genere opera, ai sensi dell’art. 40, D.Lgs. 198 del 2006, un regime di distribuzione dell’onere della prova attenuato a favore della parte che denuncia la discriminazione, a cui è richiesto di presentare elementi di fatto convergenti, in modo preciso e concordante, verso la presunzione di comportamenti discriminatori in ragione del sesso. Ritenuto assolto detto onere, spetta poi alla parte resistente dover provare che la discriminazione non sussiste, ma questa dimostrazione nel caso esaminato dal giudice del lavoro di Roma non è stata raggiunta: mentre la difesa ricorrente ha fornito elementi precisi e concordanti sull’esistenza di una condotta discriminatoria in loro danno dovuto alla condizione di gravidanza, indicando anche svariati casi di lavoratrici in gravidanza anch’esse escluse ingiustamente dalla selezione, la difesa convenuta non ha individuato neppure un’assunzione di lavoratrice gestante.
A questi esiti, il Tribunale di Roma aggiunge il dato statistico sul rapporto tra popolazione femminile in età fertile e numero delle nascite. Si tratta del passaggio dirimente della decisione, perché se la statistica offre il dato di una nascita ogni 30 donne in età fertile, il processo di reclutamento conclusosi con l’assunzione di 412 donne avrebbe dovuto ricomprendere una quota di 13,7 lavoratrici in gravidanza. Anche volendo ridurre la popolazione femminile fertile della metà, le assunzioni di donne in gravidanza avrebbero dovuto essere almeno 6 o 7. Il fatto che non ve ne sia stata nessuna confuta l’assunto delle ricorrenti.
Anche sulla base di questi dati statistici il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso delle lavoratrici, osservando che il principio di vicinanza della prova avrebbe dovuto indurre la neocostituita società di trasporto aereo, proprio perché disponeva di ogni informazione sulle procedure di reclutamento, a documentare il nominativo delle lavoratrici in gravidanza assunte con le operazioni di reclutamento. Proprio il fatto che la società non avesse, invece, ritenuto di indicare, tra le 412 assunzioni di donne, i dati sulle lavoratrici in gravidanza confermava che, in realtà, non era stata assunta nessuna gestante.
Pertanto, il Giudice, ritenuto provato ed accertato il comportamento discriminatorio nelle assunzioni, ha condannato la società al risarcimento del danno da perdita di chance alle ricorrenti, quantificandolo in 15 mensilità.
Graziana Ligorio
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena
@LigorioGraziana