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Bollettino ADAPT 4 aprile 2022, n. 13
Durante lo svolgimento del rapporto di lavoro opera sia il generale principio di eguaglianza “senza distinzione di sesso”, proclamato dall’art. 3, primo comma, Cost., sia il principio di eguaglianza nel lavoro, che è quello espresso dall’art. 37, primo comma, Cost., laddove proclama che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”: da ciò discende un generale divieto di discriminazione di genere, arricchito da un generale obbligo di protezione della “essenziale funzione familiare” e di madre della donna lavoratrice (art. 37, primo comma, Cost.). Questo apparato di tutele raggiunge una maggiore incisività grazie alle disposizioni contenute nella legislazione ordinaria e, in particolare, nel Codice delle Pari Opportunità (D.Lgs. 198\2006), che si connota altresì per un’ampia e dettagliata formulazione del divieto di discriminazione di genere.
Anche il datore di lavoro ha dunque l’obbligo di rispettare il principio generale di uguaglianza fra i sessi nella costituzione, nello svolgimento e nella cessazione del rapporto di lavoro, con il conseguente divieto di ogni forma di discriminazione, sia essa diretta o indiretta.
È opportuno, preliminarmente, analizzare detta distinzione che viene sancita dall’25 del Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna. In particolare, si è in presenza di discriminazione diretta quando, per ragioni legate al sesso, un lavoratore subisce un pregiudizio o viene trattato in modo meno favorevole rispetto ad un altro che si trovi in una situazione analoga; la discriminazione indiretta viene, invece, integrata ogni qualvolta sia adottato un comportamento, una prassi o un patto apparentemente neutri che mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso, a meno che si tratti di requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.
In altre parole, la discriminazione diretta, più semplice da individuare, si ha quando il datore di lavoro direttamente o tramite quadri, dirigenti o figure simili realizza comportamenti o provvedimenti che in relazione al sesso pongono in maniera esplicita dei trattamenti meno favorevoli o persino dannosi come effetto diretto rispetto, ad esempio, alle seguenti situazioni: verso una lavoratrice che si assenta dal lavoro a seguito di una malattia provocata dallo stato di gravidanza (Corte Giust. CE 30 giugno 1998) o per sottoporsi alla pratica di inseminazione artificiale (Cass. 6575\2016), sanzionandola con il licenziamento; verso una lavoratrice che, a causa dello stato di gravidanza, non viene assunta dalla P.A. nonostante risultati idonea in base ad una graduatoria (Trib. Prato, 10.09.2010).
La discriminazione indiretta presuppone, invece, un trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso. La discriminazione indiretta, dunque, presenta formalmente un aspetto neutro ma che di fatto, al contrario, finisce per sfavorire, ad esempio: le lavoratrici in relazione soprattutto all’evento maternità ipotetico o reale o anche i lavoratori/padri rispetto al ruolo genitoriale; le lavoratrici in regime di lavoro a tempo parziale che vengono maggiormente pregiudicate rispetto ai lavoratori part-time, all’esito di una procedura selettiva di progressione economica, quando, per effetto dell’applicazione di uno dei criteri stabiliti nel bando, il punteggio è parametrato alle ore di attività lavorativa prestata. (Corte app. Torino 18/10/2016); le lavoratrici che, ai fini del conseguimento della qualifica superiore di carriera, devono possedere un titolo di studio di scuola tecnica superiore che, seppur di carattere neutro, è riferibile solo al personale di sesso maschile, ove non risulti dimostrata l’incidenza di tale requisito sulla capacità a svolgere le mansioni superiori (Trib. Catania 22/11/2000).
In tale ambito, di recente, la L. 162\2021 è intervenuta, modificando l’art. 25 del D.Lgs. 198\2006 e introducendo importanti specificazioni sulle discriminazioni. In particolare, con riferimento alle discriminazioni dirette, tra le fattispecie discriminatorie vengono ora espressamente nominate anche le condotte tenute nei confronti delle candidate e dei candidati in fase di selezione del personale, che producano effetti pregiudizievoli discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso; con riferimento, invece, alle discriminazioni indirette, si aggiunge il riferimento alle prassi di natura organizzativa o, comunque, incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutre, che possano porre i lavoratori o i candidati in fase di selezione, di un determinato sesso, in una posizione di particolare svantaggio rispetto a quella dei lavoratori dell’altro sesso. Ancora, il novellato art. 25 continente uno specifico riferimento volto a tutelare lavoratrici e lavoratori dalle possibili discriminazioni legate alla gravidanza ed alla fruizione dei diritti legati alla maternità e paternità.
Inoltre, tra le forme di discriminazione, l’art. 26 del Codice delle Pari Opportunità, individua espressamente le molestie, ossia quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso o a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi comunque lo scopo o l’effetto di violare la dignità del lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
Ciò premesso, è d’uopo osservare che giurisprudenza e dottrina hanno, purtroppo e più volte, sottolineato come ancora troppo spesso le realtà aziendali si rivelino viziate a causa della frequente occorrenza di fenomeni che ledono l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti, nonostante la discriminazione di genere sul lavoro sia soggetta ad una sanzione amministrativa del pagamento di una somma che va da Euro 5.000,00 a Euro 10.000,00.
In particolare, il Codice delle Pari Opportunità sanziona espressamente colui che vìola il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e nelle condizioni di lavoro (art. 27); che vìola il divieto di discriminazione retributiva (art. 28); che vìola il divieto di discriminazione nella prestazione lavorativa e nella progressione di carriera (art. 29), e anche nell’accesso alle prestazioni previdenziali (art. 30).
D’altro canto, il lavoratore, a fronte delle condotte discriminatorie di genere può accedere, oltre che alle procedure di conciliazione disciplinate dai contratti collettivi e al tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. o ex art. 66 del D.lgs n. 165/2001, anche alla apposita tutela giudiziale, sia in forma individuale che collettiva.
In particolare, secondo quanto disposto dall’art. 38 del D.Lgs. 198\2006, qualora vengano poste in essere discriminazioni in violazione dei divieti innanzi indicati, il lavoratore o, per sua delega le OO.SS. o il Consigliere di parità, può ricorrere al Tribunale, in funzione del giudice del lavoro, per tutelare i propri diritti ed ottenere un decreto immediatamente esecutivo che intimi, all’autore della discriminazione, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti da esso derivati. L’inottemperanza a tale decreto comporta la sanzione penale, nei confronti dell’autore della discriminazione, dell’ammenda fino a Euro 50.000,00 o dell’arresto fino a 6 mesi.
Naturalmente, il lavoratore che agisce in giudizio per accertare una discriminazione per molestia o molestia sessuale non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi (diretti o indiretti) sulle condizioni di lavoro, quale conseguenza diretta della denuncia stessa (art. 26, comma 3 bis, D.Lgs. 198\2006). Sono pertanto nulli il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del denunciante, il mutamento di mansioni e qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante.
L’art. 37 si occupa, invece, della legittimazione processuale a tutela di più soggetti e prevede che, laddove le Consigliere o i Consiglieri di Parità regionali e/o nazionali (a seconda della rilevanza territoriale del caso), rilevino l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori o lavoratrici lesi dalle discriminazioni, prima di promuovere l’azione giudiziale, possono chiedere all’autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, entro un termine non superiore a 120 giorni. In alternativa, l’ordine di adottare un piano di rimozione delle discriminazioni può essere irrogato dal Giudice competente a seguito di ricorso proposto dal Consigliere, anche d’urgenza. L’inottemperanza da parte dell’autore della discriminazione, anche in questo caso, comporta una ammenda fino a Euro 50.000,00 o l’arresto fino a 6 mesi, oltre al pagamento di Euro 51,00 per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento giudiziario.
Inoltre, per rafforzare il rispetto del principio di parità di genere mediante un ampliamento della tutela giurisdizionale de quo, l’art. 41-bis del Codice delle pari opportunità (rubricato “vittimizzazione”) ne ha previsto l’applicazione in corrispondenza dell’ipotesi delle reazioni datoriali ostative (o ritorsive) a qualsiasi attività volta al rispetto della parità di trattamento promossa dalla stessa persona discriminata o da altro soggetto. La tutela giudiziaria è quindi esperibile “avverso ogni comportamento pregiudizievole”, espressione che amplifica sensibilmente il raggio d’azione della norma, riferendosi sia agli atti o ai provvedimenti assunti dal datore di lavoro, sia ai meri comportamenti (attivi o omissivi) dallo stesso tenuti, purché costituiscano una reazione (o una ritorsione): ciò che rileva è unicamente la consequenzialità dell’atto o del comportamento al tentativo di veder ripristinato il rispetto del principio della parità di genere.
Giova, tra l’altro, ricordare che prima degli interventi legislativi sopra evidenziati, in materia di parità di trattamento dei lavoratori, la normativa di riferimento era costituita dagli artt. 15 e 16 dello Statuto dei Lavoratori. In particolare, l’art. 15 prevede la nullità di qualsiasi atto o patto diretto ai fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. L’art. 16, comma 1, da par suo, dispone il divieto di concessione di trattamenti economici di maggior favore, aventi carattere discriminatorio, ex art. 15. In tale ultimo caso, il datore di lavoro viene condannato dall’Autorità giudiziaria competente al pagamento, a favore del fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all’importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno.
È evidente che tutta la normativa attuale è orientata ad impedire che un qualsiasi elemento differenziale dell’identità personale, fisica o psicologica della persona che lavora o che è in cerca di lavoro possa determinare il realizzarsi di pregiudizi o discriminazioni che limitino le opportunità, il talento umano, lo sviluppo della persona e la sua professionalità. Tuttavia, nonostante ciò, le persone ancora subiscono atti di discriminazione nel mondo del lavoro, in particolare le donne, e il persistere del divario di genere determina la violazione di diritti fondamentali che comportano conseguenze rilevanti anche dal punto di vista economico e sociale, soffocando opportunità e sprecando il talento umano.
Graziana Ligorio
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena
@LigorioGraziana