Disintermediare stanca. Spunti dalle ultime elezioni americane

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In principio fu la disintermediazione. Tra le tante cause, storiche e culturali, che hanno portato non solo alla seconda vittoria di Donald Trump ma, più in generale, all’affermazione di una classe politica che un tempo definivamo populista, c’è sicuramente il dissolversi di una fitta e variegata rete di soggetti che hanno costruito un rapporto non diretto tra popolo e governanti. Il riferimento è variegato, a partire dalla crisi di legittimità dei partiti politici, come è chiaro sia nel Vecchio continente sia, soprattutto, guardando allo snaturarsi del Partito Repubblicano e all’arroccarsi minoritario ed elitario di quello Democratico, tratto comune di tanti partiti “socialdemocratici” ormai incapaci di concentrarsi sui diritti sociali ed economici dei cittadini. Ma, più profondamente, stiamo vivendo le conseguenze del venir meno di quel complesso e di certo imperfetto modello di democrazia economica che in molti paesi occidentali ha caratterizzato, con un lento declino a partire dagli anni Ottanta, il secolo scorso.
 
Non si tratta qui di rimpiangere una età dell’oro che nei fatti non è mai esistita, soprattutto che negli Stati Uniti ha preso forme e intensità molto differenti rispetto al contesto Europeo. Si tratta piuttosto di ricostruire il perché di questa distanza tra i bisogni più prossimi dei cittadini e dei lavoratori e la capacità della politica non tanto di risolverli ma almeno di comprenderli. L’indebolirsi, a causa di una spinta neoliberale individualistica e, allo stesso tempo, per colpa degli stessi attori, di una rappresentanza collettiva degli interessi, ha reso i bisogni atomizzati, generando solitudine, incertezza, disorientamento. Il tutto in un contesto di trasformazioni tecnologiche che spaventano, perché spesso lette unicamente nella loro pars destruens e in un contesto, quello della tarda globalizzazione, in cui i benefici di un mondo interdipendente sembrano sempre più difficili da individuare. Al contrario sono molto più chiare ed evidenti le disuguaglianze da esso generate, sia in termini economici che nell’aver costruito due mondi sociali tra loro inconciliabili, banalizzati dalla polarizzazione tra popolo ed élite.
 
Negli ultimi quarant’anni gli attori collettivi, il sindacato in particolare ma non solo, hanno perso il ruolo di soggetto unificante di una classe che oggi ha fisionomie sempre più eterogenee, tali da non riuscire facilmente a identificare tratti comuni. Questo a causa della volontà politica di marginalizzarli, per ridurre la forza del collettivo e frammentare il popolo, dissolvendolo in un villaggio (in una cultura) globale che sembra dimenticare le differenze territoriali e locali. Ma anche a causa della difficoltà dei corpi intermedi stessi di interpretare e accompagnare la profonda frammentazione del mercato del lavoro e, con essa, dei bisogni dei lavoratori. Una funzione, questa, che ha avuto nella storia anche un profondo ruolo educativo nell’aiutare i lavoratori a cogliere alcuni elementi della complessità nella quale sono inseriti, e nel cogliere il valore del principio di rappresentanza, anche in politica. Non che si sia giunti a forme piene e mature di democrazia economica, ma quantomeno c’è stata una lunga fase nella quale gli attori di questo gioco erano ben definiti e definiti erano i canali di trasmissione tra bisogni e il loro incanalarsi in una formulazione politica, non per forza partitica, ma tesa, con forme di concertazione a vario livello e con il ruolo da sempre avuto dalla contrattazione collettiva, a cercare una risposta.
 
Il vuoto lasciato da un progressivo venire a meno di tutto questo ha generato e continua a generare forti incertezze date anche dall’assenza di luoghi in cui sentirsi parte di un collettivo che vuole rappresentare se non gli stessi almeno bisogni analoghi. E tale vuoto continua ad essere colmato, ormai da un decennio, da forme di populismo che hanno sempre più preso i contorni nel nazionalismo protezionista e rinchiuso in se stesso, come risposta a una paura del quale i leader di questi movimenti (spesso personalistici) alimentano ma che ormai permea in molti tratti tutto l’agone politico. Si tratta di fenomeni che non nascono per caso, ma esattamente come risposta a un bisogno vissuto individualisticamente, che prende così i contorni intimi dell’ansia e della rabbia e che necessità di nemici da combattere per rendere ragione del disagio in cui le persone si trovano a vivere. E così le forti disuguaglianze che permangono nel mondo del lavoro, acuite da una competizione globale in cui le industrie occidentali faticano a navigare, sono oggi all’origine di un estremo appello a chi si propone di essere, prima che il loro risolutore, il loro interprete. Perché non si può negare che, pur con tutti i giudizi sulla prognosi, spesso le diagnosi, almeno a livello superficiale, sono in linea con le problematiche quotidianamente vissute da una grande fetta di persone, in una polarizzazione sociale ed economica crescente. E così la risposta è in qualche modo collettiva, ma solo nel suo convergere intorno alle promesse di un leader.
 
Al contrario oggi avremmo la grande urgenza di riscoprire il collettivo nella rappresentanza dei bisogni, nel processo della loro emersione, nella costruzione di analisi, nella progettazione di soluzioni. La modernità non ha come destino quella dell’affermazione dell’individuo e dei suoi diritti individuali (e tra questi, spesso, non quelli economici e sociali che sono scarsamente considerati). Si tratta di uno specifico approccio che ogni giorno di più rivela la sua inconcludenza, perché oggi il singolo individuo, anche se abilitato da norme che lo valorizzano, difficilmente può sostenere il peso di disuguaglianze enormi se non all’interno di una dimensione collettiva. La grande illusione di emancipazione individuale dal punto di vista economico e sociale, alla quale anche molto del mondo progressista ha creduto, sta sempre di più svelando i suoi limiti e richiede una presa d’atto che senza il collettivo la strada di un miglioramento delle condizioni non è possibile. E questo è chiaro nel fallimento delle politiche populiste nella riduzione delle disuguaglianze che pure hanno generato il consenso elettorale, così come è chiaro che spesso proprio questi movimenti hanno voluto esplicitamente proseguire nell’opera di disintermediazione, forti della loro interpretazione del popolo che inevitabilmente svanisce quando si è alle prese con il potere.
 
Di tutto questo si preferisce non parlare, riducendosi spesso a personalizzare la sfida elettorale, demonizzando l’avversario e ignorando la consonanza tra i problemi che volte pone (in modo riduttivo, sia chiaro) e i bisogni percepiti dalle persone, focalizzandosi invece su tutta una serie di diritti individuali che ormai paiono caratterizzare quasi totalmente le agende politiche. E questo proprio perché disintermediando si è persa principalmente la conoscenza di tali bisogni. Riscoprire il valore sociale del lavoro, la sua dimensione collettiva nella rappresentanza dei bisogni (che sono nuovi, e che spesso non conosciamo) è la strada per costruire una nuova democrazia economica nella quale le persone, e non gli individui, abbiano la piena libertà di esprimersi, non sulla carta, ma nella quotidianità del loro lavoro.
 
Al contrario la democrazia rimarrà solo una illusione incompiuta davanti alla percezione crescente delle disuguaglianze, anche tra imprese nel mercato internazionale e non solo tra lavoratori. La politica deve avere il coraggio di tornare a guardare a questo, il sindacato deve riscoprire la sua anima di forza sussidiaria che dal basso conosce, interpreta e rappresenta le urgenze dei lavoratori, in tutte le loro forme, comprese quelle più marginalizzate e dimenticate. L’antidoto a un populismo ingannevole può essere solo questo, senza il timore di andare a recuperare anche forme del passato dando loro contenuti e linfa nuova. Come farlo è una sfida urgente che richiede un rinnovamento profondo degli approcci e dei modelli organizzativi che negli anni si sono eccessivamente strutturati perdendo la flessibilità necessaria per adattarsi ad un mondo che cambia. Sarebbe importante aprire una vera discussione, l’occasione è propizia, nel nostro piccolo ne parleremo a Bergamo il 4 dicembre in un convegno che ha proprio come titolo “Ripensare il valore sociale e la dimensione collettiva del lavoro, oggi“.
 
Francesco Seghezzi

Presidente ADAPT

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