È davvero sufficiente assorbire Anpal in Inps per far funzionare le politiche attive?

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Bollettino ADAPT 1 marzo 2021, n. 8

 

Sta facendo discutere la recente proposta di Boeri e Perotti (T. Boeri, R. Perotti, Donne e giovani rischiano la povertà. Sussidi da riformare, in La Repubblica del 27 febbraio 2020) di affidare all’INPS la gestione e il coordinamento delle politiche attive. Secondo i due economisti «le politiche attive funzionano solo se strettamente integrate con le politiche di sostegno al reddito in uno scambio di diritti e responsabilità (ti aiuto solo se ti impegni nella ricerca di lavoro)». Per rendere effettivo un simile legame – la c.d. «condizionalità», ampiamente prevista dalla legge ma finora rimasta inattuata nella prassi – sarebbe insomma indispensabile accentrare presso un unico soggetto tanto l’erogazione delle misure passive (Reddito di cittadinanza, NASpI, ecc.), di competenza dell’INPS, quanto la gestione dei servizi per il lavoro (orientamento, supporto alla ricerca del lavoro, avviamento alla formazione, ecc.), che attualmente sono di competenza dell’ANPAL.

 

Il tema non è nuovo. L’idea di un super-INPS si era affacciata già nelle fasi di gestazione del Jobs Act, quando si decise di istituire una Agenzia Nazionale per l’Occupazione per poi convergere, forse anche solo per un problema di acronimo, sulla Agenzia Nazionale per le Politiche Attive (ANPAL, appunto). Una proposta razionale e tutta orientata a un efficientismo economicista che – anche al di là del nodo, non secondario, della sua effettiva praticabilità giuridico-istituzionale dopo il fallimento del referendum costituzionale promosso da Matteo Renzi, che avrebbe dovuto attrarre le politiche attive del lavoro nella competenza dello Stato – poco appartiene alla tradizione delle politiche occupazionali e del lavoro del nostro Paese anche se presente in recenti proposte di riforma del quadro giuridico istituzionale di riferimento (si veda il disegno di legge n. 1338 presentato in data 13 giugno 2019, recante delega al Governo per la semplificazione e la codificazione in materia di lavoro che, all’art. 1, comma 3, lett. e), disponeva la razionalizzazione e riorganizzazione degli enti che si occupano di politiche attive del lavoro «anche attraverso il loro accorpamento»).

 

Vero è tuttavia che poco si è riflettuto, rispetto al conclamato fallimento delle politiche del lavoro in Italia, sulle caratteristiche soggettive e sulle condizioni anche psicologiche dei percettori di sussidi pubblici che, come evidenziato dalla sociologa Enrica Morlicchio, rischiano di vedere inutilmente accentuati quegli automatismi della condizionalità che subordinano la effettiva percezione del sostegno economico alla dichiarazione di disponibilità al lavoro e alla accettazione delle offerte di lavoro c.d. congruo.

 

Quello che vogliamo dire, alla luce delle lezioni e dei non pochi errori del passato, è che le politiche attive del lavoro non possono essere impostate in termini deterministici e di semplice razionalità economica perché i comportamenti e le reazioni dei percettori di sussidi pubblici non sono facilmente assimilabili a quelli dell’homo economicus.

 

Già Robert M. Solow, premio Nobel per l’economia del 1987, nel suo Il mercato del lavoro come istituzione sociale (R. Solow, The Labor Market as a Social Institution, Cambridge, Mass., Blackwell, 1990, qui p. 29), evidenziava i rischi di una «insistente pressione politica» al «coordinare l’assistenza sociale al lavoro». Il pericolo, infatti, è che simili meccanismi assumano «un carattere punitivo», assecondando una certa idea, mai del tutto sconfitta anche nella società contemporanea, che la povertà sia una “colpa” e il rapporto dell’uomo con il lavoro sia riducibile a logiche economico-utilitaristiche, per le quali solo il rischio del perdere l’incentivo economico può veramente attivare la persona, costringendola ad uscire dal suo stato di inattività o disoccupazione.

 

Per dimostrare che il mercato del lavoro non è governato (solo) da criteri economici, Solow nella sua opera richiama un esperimento realizzato nel 1984 nello Stato dell’Illinois quando si mise a confronto un gruppo di percettori del sussidio di disoccupazione ordinari con un altro gruppo al quale era offerto un premio di cinquecento dollari nel caso avessero trovato un lavoro entro dieci settimane. I risultati dell’esperimento furono sorprendenti perché, al contrario delle aspettative, non solo non si registrò un tasso di occupazione maggior tra le persone coinvolte nell’esperimento, ma non si rilevò neppure una propensione a trovare lavoro a ridosso del termine del beneficium, smontando così «l’analisi della manualistica della scelta tra lavoro e tempo libero» secondo la quale ci si sarebbe dovuto aspettare una tendenza a godere il più tempo possibile del sussidio. Questi risultati sono stati confermati anche negli ultimi anni, in occasione degli sparuti esperimenti di basic income (S. Spattini, M. Morocco, Diritto al lavoro, contrasto alla povertà, politica attiva, inclusione sociale: le tante (troppe?) funzioni del reddito di cittadinanza all’italiana. Primo commento al d.l. n. 4/2019, ADAPT Labour Studies, e-Book series n. 79, 2019), dai quali è emerso, nei limiti statistici e scientifici di esperienze di dimensioni ridotte per durata e numero di persone coinvolte, che i beneficiari del reddito incondizionato non avessero una inclinazione al lavoro minore rispetto a chi invece era coinvolto in misure di sostegno al reddito “tradizionali”.

 

Le scelte di occupazione e la ricerca di impiego dei lavoratori disoccupati – concludeva Solow – non sembrano insomma regolate in modo semplice e nemmeno contraddistinte da un elemento predominante e questo perché il mercato del lavoro non è un ordine puramente economico ma, prima di tutto, una istituzione sociale dove logiche di efficienza devono essere attentamente allineate ai bisogni e alle caratteristiche delle persone interessate dalle politiche di attivazione. Bene dunque tornare a parlare di politiche attive del lavoro ma a condizione di non replicare gli errori del passato alimentando, per mercati del lavoro oggi profondamente cambiati, la falsa promessa delle misure di ricollocazione intese come un automatismo di facile applicazione a condizione, semplicemente e semplicisticamente, di trovare il giusto soggetto erogatore-controllore.

 

La verità è che troppo spesso si sono immaginate le politiche attive unicamente come una modalità per riqualificare i lavoratori senza partire dai loro bisogni, ma dai bisogni astratti di un sistema produttivo che, nel frattempo, era in profonda trasformazione. E così, e questo viene denunciato soprattutto nei Paesi in cui le politiche attive sono state svolte molto più che in Italia, si sono traditi centinaia di migliaia di lavoratori illudendoli che bastassero corsi di formazione per poter trovare un nuovo posto di lavoro. Al contrario la mutevolezza dello scenario oggi impone politiche attive che partano dalle capacità e dalle debolezze delle persone, di ciascuna singola persona, prendendo atto che non ogni strategia di riqualificazione è possibile e valida per tutti e che occorre «fare leva sulla motivazione della persona, più che sulla sua paura» di perdere il supporto economico (E. Massagli, La pedagogia del reddito di cittadinanza, Professionalità, n. 6, 2019, p. 35).

 

In tutto questo non condividiamo allora l’ironia, ampiamente diffusa e presente anche nel contributo di Boeri e Perotti, sui navigator perché, al di là del fatto, certo non trascurabile, del fallimento della esperienza, sono proprio queste figure a rivelarsi preziose (più della fredda condizionalità) nei moderni mercati transizionali del lavoro per farsi carico e accompagnare i percorsi di attivazione di chi è meno fortunato di noi nel rapporto con il lavoro e nella ricerca di un progetto di vita grazie ad esso (vedi S. Negri, Navigator: una nuova professione o la ridefinizione di un profilo professionale già esistente?, in Nuova Secondaria, 2, 2019, pp. 84 ss.).

 

Giorgio Impellizzieri

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

Università degli Studi di Siena

@giorgioimpe

 

Michele Tiraboschi

Ordinario di diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia

@MicheTiraboschi

 

È davvero sufficiente assorbire Anpal in Inps per far funzionare le politiche attive?