O il dimezzamento del salario o una chiusura degli impianti più o meno ammorbidita dai classici ammortizzatori ordinari e in deroga all’italiana. Sembra questa, a leggere le notizie di stampa, l’alternativa che si pone ai dipendenti dello stabilimento di Porcia che producono lavatrici a marchio Electrolux. Un’alternativa figlia di un’ormai vetusta visione del lavoro che lo ritiene nient’altro che uno dei meccanismi della produzione, e in quanto tale facilmente sostituibile con altra merce ad un minor costo. Una visione che determina spesso il funzionamento delle relazioni industriali, sia dal punto di vista datoriale che da quello sindacale.
Ma proprio il caso Electrolux, tolti le lenti dell’ideologia, offre interessanti spunti per riflettere sul futuro delle relazioni industriali italiane, senza per questo scadere in proclami e discorsi e scordando che al centro del dibattito oggi ci sono gli operai dello stabilimento, e le loro famiglie.
La premessa principale da non dimenticare è che in Italia fare impresa è diventato ormai un onere insostenibile, sia per il costo dell’energia sia per quello del lavoro. Basti pensare che il costo medio orario del lavoro nel nostro Paese è di 24 euro (8 di oneri sociali) mentre quello in Polonia, per stare sul caso Electrolux, di 11 euro (2,5 di oneri).
Uno scenario che scoraggerebbe anche il più patriottico degli imprenditori ad investire in Italia.
Partendo quindi dalla convinzione che il problema del lavoro non si risolva certo con nuove norme ma con una riaccellerazione della nostra economia, non possiamo negare che anche l’organizzazione del lavoro nelle imprese italiane abbia qualche colpa nella delocalizzazione produttiva.
A fronte della richiesta di nuovi investimenti alle imprese quindi, il sindacato deve essere in grado di pensare una nuova organizzazione del lavoro, strutturata in modo dinamico e non ingessato, in modo da potersi adattare alle esigenze di mercato, senza rinunciare alla centralità della persona del lavoratore.
In questo senso è necessario superare una concezione del lavoro ferma al paradigma ford-taylorista nella direzione di nuovi modelli di organizzazione e di partecipazione dei lavoratori allo sviluppo dell’azienda.
La proposta diffusa dall’Unione degli industriali locali, che si propone di ridurre del 20% il costo del lavoro attraverso novità in tema di flessibilità di orario, premi di produzione ecc., è una primo segnale in questo senso.
Nella stessa direzione si muove la Cisl quando Luigi Sbarra afferma di essere disponibile a “una discussione vera sull’efficienza produttiva, l’organizzazione del lavoro, la produttività ed il trattamento economico” a fronte di una conferma degli investimenti da parte di Electrolux.
I fattori economico-strategici non possono essere un argomento affrontato solo dall’imprenditore, ma, una volta stabilito l’insieme dei diritti dei lavoratori in quanto persone, devono essere la causa di una maggiore dinamicità dell’organizzazione del lavoro che, lontana dalla staticità di un tempo non può che rimodellarsi territorio per territorio, azienda per azienda, reparto per reparto.
Questi elementi possono essere condivisi attraverso nuove forme di partecipazione dei lavoratori, sia sotto forma dei cosiddetti ESOP (Employees Stock Ownership Plans) o di altre forme di azionariato, sia sotto forma di nuovi modelli di governance aziendale. Solo così si sviluppa una correlazione tra la partecipazione del lavoratore al rischio di impresa e la sua stessa partecipazione agli utili. Insomma, in qualche modo si troverebbe a rispondere, in chiave sussidiaria e fin nelle proprie tasche, degli investimenti che sono a gran voce richiesti alle aziende oggi. Questo porterebbe a una seria riflessione su cosa significhi oggi il lavoro (e il lavoratore), se solo una merce nelle mani del mercato, o la possibilità di realizzazione dell’uomo, attraverso l’azione e il contatto con la realtà, in una impresa che è anche “sua”, della quale è anch’esso responsabile.
Quanto detto finora richiede un’evoluzione del ruolo del sindacato, che deve essere l’ente mediatore, insieme alle associazioni datoriali, tra impresa e lavoratori: è questo un test per valutare il funzionamento degli strumenti della bilateralità all’interno delle moderne relazioni industriali. Un sindacato radicato nel territorio e nell’azienda in modo da potersi sedere al tavolo e discutere libero da condizionamenti ideologici e pregiudizi che esulano dai concreti meccanismi produttivi che interessano ai lavoratori.
I veri nemici della crescita sono proprio coloro che ancorano il dibattito a vecchie categorie ideologiche senza approfittare del momento di difficoltà per portare ad una revisione dei modelli contrattuali, organizzativi e partecipativi. Non siamo davanti a un ricatto ma a una sfida.
ADAPT Junior Fellow
@francescoseghez
*Il presente articolo è stato pubblicato in Conquiste del lavoro il 1 febbraio 2014.