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Bollettino ADAPT 20 aprile 2020, n. 16
La diffusione del virus Covid-19 e lo stato di emergenza sanitaria, sociale ed economia che stiamo attraversando ha favorito un rinnovato interesse nei confronti di quei momenti storici nei quali l’umanità si è già trovata ad affrontare simili drammi: dalla peste di Atene del V secolo a.C., alla peste nera diffusa in Europa a partire dal 1346, fino all’influenza “spagnola” dello scorso secolo. Nonostante la grande differenza tra periodi storici, e l’inutilità di costruire semplici parallelismi tra le precedenti epidemie e l’attuale, è possibile imparare qualcosa dal passato.
Uno spunto in tal senso, almeno per chi si occupi di tematiche economiche e del lavoro, è offerto dal recente articolo di Patrick Wallis, Professore di Storia Economia alla London School of Economics and Political Sciences, dal titolo “Eyam revisited: lessons from a plague village”. La storia di questo villaggio inglese, Eyam, era già stata riportata agli onori della cronaca dall’attuale Poet Laureate inglese, Simon Armitage, che ha composto un poema sulla quarantena imposta dal Covid-19 ispirandosi a questa piccola località del Derbyshire, pubblicato sul sito del The Guardian lo scorso 21 marzo. La storia è semplice: nel 1666 gli abitanti di Eyam, colpiti da una terribile pestilenza, imposero a loro stessi uno stato di quarantena particolarmente rigido per impedire la propagazione del morbo nella regione, e molti di essi ne morirono. Da allora, è nato un vero e proprio “mito” di Eyam, incentrato sull’esaltazione del coraggio e delle virtù morali degli abitanti del villaggio inglese, che si sacrificarono – sacrificando la loro libertà – per il bene della loro terra.
L’articolo di Wallis permette di comprendere la differenza che sussiste, in lingua inglese, tra story e history: se la prima è la narrazione, più o meno reale, di un insieme di fatti, la seconda invece a partire dalla verifica di fonti documentali ricostruisce l’effettivo svolgersi degli eventi passati, ovviamente per quanto possibile. Se la story di Eyam è quindi ricca di dettagli, tanto da farne diventare, negli anni successi, una meta turistica per i curiosi di scoprire il “villaggio della piaga”, la history è invece molto più scarna: le informazioni a disposizione degli storici sono poche e frammentate. Non solo. Le fonti che lo stesso Wallis raccoglie dimostrano come non vi sia traccia di un auto-imposizione della quarantena, la quale invece pare fu gestita e attentamente monitorata da forze pubbliche di altri villaggi, anche attraverso il ricorso alla costruzione di un vero e proprio cordone per sorvegliare i confini del villaggio. Questa ricostruzione non ha, evidentemente, lo scopo di sminuire il comportamento degli abitanti di Eyam, i quali comunque, da quanto emerge dalle fonti, rispettarono la quarantena imposta, ma piuttosto di evidenziare come sia rischioso costruire veri e propri miti appellandosi allo straordinario coraggio e alla virtù di una comunità: oltre ai – seppur utili – richiami etici ad un assunzione collettiva di responsabilità, è altrettanto importante progettare e mettere in pratica misura pubbliche di gestione dell’epidemia.
Non è sufficiente, allora, richiamarsi al bene comune aspettandosi poi che, quasi deterministicamente, una comunità individui, come se fosse un unico ente collettivo, la strada migliore per tutelarlo e perseguirlo: è invece necessario promuovere, assieme agli appelli all’attenzione e al rispetto delle misure messe in campo per contenere il diffondersi della piaga, strategie pubbliche e private efficaci, condivise e chiare. Wallis conclude infatti l’articolo richiamando questo necessario connubio: “For all that, we should be careful not to ask too much of each other. Effective quarantines need both external and internal reinforcements if they are to succeed. Heroism is not a substitute for government action: we need both”. La storia (history) di Eyam ci ricorda quindi l’importanza di strategie che sappiano esaltare e promuovere i comportamenti virtuosi, e non scaricare su una determinata fetta della popolazione la gestione dell’emergenza.
Quella di Eyam, d’altronde, non è l’unico insegnamento che ci arriva dal passato. “The Long Run”, il blog curato dalla Economic History Society ha raccolto, nelle scorse settimane, numerose pubblicazioni scientifiche frutto del lavoro di diversi studiosi di storia economica, molte delle quali open access e liberamente fruibili. Anche in questo caso, costruire semplici parallelismi risulta inutile e dannoso. Ma ciò che emerge costantemente, dai diversi studi citati, è il notevole impatto che hanno avuto nel passato gli interventi di tutela della salute pubblica sull’economia di un territorio colpito da un’epidemia. Attualmente si discute e si ragiona a proposito della necessità di trovare un giusto punto di equilibrio tra tutela della salute ed economia, tra il limitare gli effetti della crisi sanitaria e quelli della crisi economica. Nelle analisi sulla diffusione della tubercolosi o del vaiolo negli Stati Uniti del XIX secolo non è possibile trovare la risposta a tale interrogativo, ma spunti utili su come ripensare il rapporto intercorrente tra le dimensioni citate, tra salute ed economia. Queste non devono essere pensate come contrapposte e separate, ma unite e connesse: investendo sull’una, si valorizza anche la seconda. E non solo in termini di sviluppo economico inteso come produzione di ricchezza, o misurando esclusivamente la durata media della vita, ma anche come accesso ad una migliore istruzione e condizioni di vita per tutta la popolazione: un esempio è quello tratto dall’articolo titolato Typhoid Fever, Water Quality, and Human Capital Formation, nel quale si dimostra la correlazione tra promozione della salute pubblica attraverso l’aumento della qualità dell’acqua e il miglioramento delle condizioni sociali ed educative della popolazione, dimostrando cioè una connessione tra investimenti a tutela della salute e migliori livelli di studio in seguito raggiunti dalla popolazione.
In altre parole, investire nella promozione della salute, considerando un lasso di tempo più o meno lungo, significa investire sulla qualità del lavoro, della società, della vita delle persone. Le due cose non sono opposte ma intrinsecamente connesse: se allarghiamo l’orizzonte temporale e concettuale dentro il quale realizziamo il bilanciamento degli interessi tra tutela della salute e sviluppo economico troviamo, a partire dalla lezione del passato, che in esito alla prima si guadagna il secondo, a patto ovviamente di non limitarsi a considerare come “valore”, anche in termini economici, la disponibilità di ricchezza, ma riconoscendo al contempo il significato cruciale per lo sviluppo delle nostre società rivestito da altre dimensione del vivere umano.
In conclusione, i contributi qui richiamati sembrano suggerire il superamento di un’idea di bilanciamento tra interessi contrastanti, mostrando invece l’intrinseca unità data dalla trama di relazioni che sussistono tra salute, sviluppo economico, lavoro, società. Ovviamente, essi non forniscono indicazioni operative su come affrontare la crisi in atto, ma offrono importanti spunti per ripensare, anche oltre la crisi, il rapporto tra salute e lavoro. Wallis, ripercorrendo la storia (story) di Eyam, ha mostrato il rischio di far crescere dei veri e propri “miti”, appellandosi ai quali poi scaricare la responsabilità della gestione dell’epidemia sui soli comportamenti delle persone, suggerendo al contrario la necessaria integrazione tra comportamenti privati e interventi pubblici; gli studi di storia economica, più in generale, ammoniscono sull’importanza di disporre di dati certi a partire dai quali compiere valutazioni e interventi, anche considerando le molteplici relazioni che sussistono tra salute pubblica e benessere economico, irriducibili al solo costo immediato di una misura o dell’altra, rinunciando ai miti e lavorando secondo logiche il più possibile collaborative e partecipate.
ADAPT Junior Fellow