Certo, in Italia il solco tra lavoratori garantiti e lavoratori non garantiti è grande, ma questo problema non si risolve creando nuove divisioni. E se il nodo, invece, è quello di favorire la crescita «il problema va rovesciato: non sono le regole del lavoro che favoriscono Io sviluppo quanto gli investimenti». Per cui, invece di cambiare di nuovo l’articolo 18, «occorre mettere in primo piano politica industriale e politica fiscale» spiega Guglielmo Epifani. «È vero sostiene l’ex segretario della Cgil c’è un problema di modernizzazione del mercato del lavoro, un mercato molto segmentato, dove negli anni si è accentuata la precarietà. Ora serve un riordino: ma non perché lo chiede l’Europa, ma perché lo chiede la condizione sociale del Paese». Il presidente della Commissione attività produttive della Camera pensa che la riforma, alla fine, debba rappresentare «il punto comune di una valutazione che appartiene a tutto il Paese. A mio modo di vedere, tutela del lavoro, dignità del lavoro, un diverso rapporto lavoratore-impresa devono far parte di un’idea di sviluppo che deve essere compatibile col fatto che dobbiamo competere con prodotti, servizi e aziende di qualità».
Quindi che riforma serve?
«Il primo punto da cui partire è collegare formazione e lavoro in maniera più stabile e forte. Abbiamo bisogno di formare di più e meglio i lavoratori con un rapporto più stretto coi fabbisogni delle imprese, cambiando totalmente il rapporto tra scuola, università, ricerca e lavoro sull’esempio degli Usa. E poi, sul versante delle imprese, occorre migliorare la qualità della domanda per evitare di vedere fuggire in Germania i nostri ingegneri. Bisogna puntare qualità, perché a noi non serve un modello di sviluppo incentrato su decentramento delle produzioni, prezzi bassi e grandi quantità. Questo è un modello di sviluppo “basso” che non risponde all’esigenza di arre stare il declino dell’Italia»
Detto ciò la questione-apartheid resta però irrisolta?
«È il secondo punto da affrontare: il nostro mercato del lavoro deve essere reso più inclusivo. Oggi ci sono lavoratori che non hanno diritti. Tra i giovani sono la maggioranza. Il diritto alla maternità va certamente esteso a tutti e va superata la cassa in deroga, che è stata utilizzata ma non può essere certamente “il modello” perché è troppo occasionale. Mentre invece bisogna garantire a chi resta senza lavoro una tutela più universale. E per fare questo occorre riformare anche gli strumenti di avviamento e accompagnamento al lavoro, che da noi funzionano male. Inoltre col Jobs Act bisogna trovare il modo di semplificare il numero dei modelli contrattuali.
Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti può essere la soluzione?
«Questa è una buona soluzione, ma bisogna fare in modo che assorba e sostituisca una parte consistente delle forme spurie tipiche del lavoro. E soprattutto occorre vedere bene la questione del reintegro».
Nel testo votato ieri non se ne fa cenno. Va lasciato o tolto?
«Chiariamo subito che in molti Paesi europei il reintegro, magari con forme diverse, c’è. Non è vero che non c’è. Ora però se lo si fa saltare totalmente per affidarsi unicamente al risarcimento monetario si crea una soluzione che ha un limite fondamentale, come ci dimostra la Spagna di oggi. Si parte con un risarcimento alto, alla prima difficoltà poi lo si dimezza quindi con la crisi lo si fa saltare del tutto. Col risultato che il lavoratore licenziato con l’accusa di aver rubato, se poi si dimostra che questa accusa è falsa perché non può essere reintegrato? Il cuore della discussione è questo e per questo invito il PD a riflettere».
Ma su questo tema si può davvero creare una frattura nel partito?
«Dipende da come si risolve la questione: è chiaro che su questo punto possono maturare posizioni differenti. Ma, ripeto, per me questo è un tema importante, che non appartiene all’altro secolo, ma attiene alla qualità del lavoro e all’idea di sviluppo oggi e di domani».
Ma allora il reintegro va lasciato com’è, o si può affinare ulteriormente?
«Si può affinare, ma già ipotizzare che scatti dopo tre anni è un bel salto. Detto questo, pensare che chi c’è l’ha lo può tenere, mentre i neoassunti non lo possono avere mai più non mi convince. È questa la soluzione migliore: ridividere i lavoratori per generazioni?».