Una delle questioni principali rispetto alla tematica delle malattie croniche è la difficoltà di stabilire un concetto chiaro di malattia cronica a livello giuridico. Detta criticità deriva della mancanza di una regolazione ad hoc nell’ordinamento giuridico italiano, situazione che dà luogo a una grande incertezza giuridica quando si tratta di determinare quali sono i diritti specifici dei lavoratori affetti da malattie croniche. Tentativi di regolazione di questo fenomeno sono stati realizzati, di recente con l’art. 8 comma 3 decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 che ha esteso il diritto al part-time ai lavoratori affetti da “gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti”, diritto già introdotto dall’art. 46 del Decreto legislativo n. 276/2003 di attuazione della c. d. legge Biagi, per i soli lavoratori affetti da patologie oncologiche. Anche se, in questo caso, il legislatore italiano si sta riferendo alle malattie croniche, manca una vera definizione tecnica di questo concetto. Pertanto, non si può dire che esista in Italia un concetto chiaro di malattia cronica a livello giuridico che consenta di offrire una tutela integrale ai lavoratori che soffrono di queste malattie.
Di fronte a questa situazione, il principale rischio è quello di confondere le malattie croniche con altri concetti con i quali può avere caratteristiche in comune e che siano destinatari di una regolamentazione ad hoc nell’ordinamento giuridico italiano e comunitario: in particolare, la disabilità. La possibilità di far rientrare le malattie croniche nel concetto di disabilità è un tema al centro del dibattito ormai da qualche tempo a livello europeo in conseguenza di alcune sentenze della Corte di giustizia europea (si veda C. giust 11 aprile 2013, causa C-335/11 e C-337/11, HK Danmark e C. giust 18 dicembre 2014, causa C-354/13, Fag of Arbejde). In queste sentenze, l’alto Tribunale utilizza una definizione ampia di disabilità ispirandosi nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ed stabilisce che, nel caso in cui la malattia del lavoratore comporti una limitazione di lunga durata che possa ostacolare la sua piena ed effettiva partecipazione nella vita professionale, rientra nella nozione di disabilità ai sensi della Direttiva 2000/78, in materia di parità di trattamento. L’utilizzo di una definizione o un’altra di disabilità non ha effetti soltanto nell’ambito teorico e concettuale poiché dalla riconduzione alla nozione dipende tra l’altro l’acceso dei malati cronici alla protezione antidiscriminatoria.
La nuova definizione di disabilità utilizzata dalla Corte di giustizia avrà un impatto particolarmente importante nei Paesi dove non esiste una definizione così ampia di disabilità. Nel caso dell’Italia, non esiste un concetto unitario di disabilità, ma esistono definizioni diverse nelle diverse norme che regolamentano la questione. Il Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216 di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro non contiene, allo stesso modo della Direttiva, non contiene una definizione espressa di disabilità. Tuttavia, la legge 1 marzo 2006, n. 67. Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni si riferisce alle persone con disabilità di cui all’articolo 3 della Legge 5 febbraio 1992, n. 104. Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, per tanto, la protezione antidiscriminatoria si garantisce alle persone che rientrano in questo concetto di disabilità che è più ampio di quello utilizzato nella Legge 12 marzo 1999, n. 68. Norme per il diritto al lavoro dei disabili, per la quale disabili sono soltanto le persone a cui viene riconosciuto una determinata percentuale di disabilità. Nessuna delle definizioni di disabilità dell’ordinamento giuridico è conforme con la definizione utilizzata dalla Corte di giustizia perché anche la definizione della legge 104 richiede l’accertamento dell’esistenza di limitazioni. Per questo motivo, si pone il problema della necessità di interpretare la definizione di disabilità a effetti di tutela antidiscriminatoria d’accordo con quanto stabilito dalla Corte di giustizia.
Le ultime sentenze della Corte di giustizia assimilano la malattia di lunga durata alla disabilità unicamente nell’ambito della parità di trattamento e non discriminazione posto che in dette sentenze, la Corte sta interpretando il concetto di disabilità ai sensi della Direttiva 2000/78. L’equiparazione che realizza la Corte di giustizia ha, pertanto, effetti limitati a questo ambito e per questo motivo, sussisterebbero concetti di disabilità diversi all’interno di un unico ordinamento giuridico: uno a effetti di tutela antidiscriminatoria, un altro nell’ambito previdenziale e un altro ancora nell’acceso al lavoro. Questa situazione potrebbe creare confusioni e differenziazioni all’interno della categoria ampia dei soggetti considerati disabili, che lo potrebbero essere alla luce di una normativa ma non di un’altra.
In particolare, nel caso dei malati cronici, anche se questi potrebbero essere considerati disabili secondo la definizione della Corte di giustizia ed avere accesso alle tutele in materia antidiscriminatoria previste nel Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216, così come integrato dal Decreto-legge 28 giugno 2013, non avranno acceso alle tutele previste nella Legge 12 marzo 1999, n. 68, tra le quali, il collocamento mirato.
Sebbene, la possibilità di far rientrare le malattie croniche nel concetto di disabilità per via interpretativa sembra essere l’opzione più adeguata a legislazione vigente per poter offrire protezione antidiscriminatoria ai malati cronici, questo porta a confusioni dal punto di vista terminologico. Anche se questa equiparazione consente ai malati cronici di accedere agli accomodamenti ragionevoli e, pertanto, dà loro più possibilità di conservare il proprio posto di lavoro, per evitare l’esistenza di concetti di disabilità diversi, una soluzione potrebbe essere quella di includere la malattia cronica come motivo di discriminazione vietato nella Direttiva 2000/78 e nella normativa a livello nazionale. In questo modo, i malati cronici potrebbero avere accesso alla tutela in materia antidiscriminatoria come una categoria a sé, e non attraverso l’equiparazione alla disabilità.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo
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