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Bollettino ADAPT 23 settembre 2019, n. 33
A distanza di due mesi (4 lug. – 4 sett.), licenziando due importanti decisioni di carattere interpretativo, la sezione lavoro della Suprema Corte torna a occuparsi della delicata quanto attuale questione dei processi di esternalizzazione.
Invero, attraverso le pronunce n. 18004 e 22110, il giudice della nomofilachia tenta di consolidare, con iter motivazionali “gemelli”, l’esegesi normativa del c. 2 art. 29 D.l.gs. 276 del 2003, inerente la c.d. responsabilità solidale negli appalti.
Nello specifico, la vexata quaestio riguarda la decadenza degli Istituti creditori – nello specifico INPS – dall’azione di recupero nei confronti del soggetto a monte della filiera, il committente, a fronte di un passaggio normativo che lo individua quale “…obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi…nonché i contributi previdenziali…”.
La soluzione offerta dalla corte, che, in sostanza, legittima la pretesa dell’ente anche oltre il termine dei due anni, purché esercitata nei limiti quinquennali di prescrizione, sovverte quello che sembra il tenore letterale della norma, oltre a smentire precedenti tesi ministeriali1 che confermavano l’indifferibilità dell’azione.
Tuttavia, quelle che sembrano decisioni in violazione del basilare principio di ermeneutica sancito dall’art. 12 delle preleggi (nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse…), trovano invece fondamento nella tesi giurisprudenziale secondo la quale il criterio sussidiario costituito dalla ricerca della mens legis, il criterio di interpretazione teleologica, può assumere rilievo, rispetto all’interpretazione letterale, nel caso eccezionale in cui l’effetto giuridico sia incompatibile con il sistema normativo2.
E le ragioni addotte, sembrano cogliere nel segno, raggiungendo così il grado di “eccezionalità” richiesto.
In effetti, approfondendo la disamina operata, la corte ammette l’esistenza di due soluzioni interpretative, ma, quella “letterale”, atta a generare un’obbligazione contributiva sui generis del tutto conformata alla speciale azione riconosciuta al lavoratore e dunque soggetta al medesimo – e deteriore – termine decadenziale, non può preferirsi a quella spinta da ragioni di ordine sistemico.
E in un complesso di previdenza sociale fondato sul principio di solidarietà, già di per se svincolato da un equilibrio di prestazioni corrispettive3, sarebbe dunque inammissibile una parafrasi normativa che comporti “…la possibilità, addirittura prevista implicitamente dalla legge come effetto fisiologico, che alla corresponsione di una retribuzione – a seguito dell’azione tempestivamente proposta dal lavoratore – non possa seguire il soddisfacimento anche dall’obbligo contributivo, solo perchè l’ente previdenziale non ha azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell’appalto.”.
Questo irragionevole risultato, sarebbe per giunta contrario alla differente natura delle predette obbligazioni – retributiva e contributiva – che, per quanto tra loro connesse, conservano, ciascuna, la propria autonomia.
Invero, la tipicità dell’obbligo contributivo, che, peraltro, interessa soggetti diversi rispetto a quello retributivo (datore/ente vs datore/lavoratore), risiede nel c.d. “minimale contributivo” ossia l’impossibilità di disporre una base di calcolo del dovuto previdenziale, inferiore a quella determinata dai contratti collettivi stipulati dalle OO.SS. più rappresentative a livello nazionale4.
A tal proposito, è utile rammentare che, a differenza del rapporto tributario, ove il diritto del Fisco al prelievo presuppone la percezione effettiva delle somme, la legittimità della pretesa previdenziale non riscontra limiti neppure innanzi alla mancata corresponsione degli emolumenti, trovando invece applicazione una sorta di principio “per competenza”, non eludibile, nemmeno in ipotesi di accordo fra datore e lavoratore5.
Dimostrata dunque l’infondatezza giuridica di una trattazione uniforme dei crediti in parola, dall’analisi delle argomentazioni emergono ragioni ulteriori a sostegno delle ordinarie prerogative INPS, ragioni che riguardano gli obbiettivi di tutela auspicati dal legislatore attraverso l’architrave normativa.
E non vi è dubbio alcuno che la ratio dell’art. 29, “…incentivare un utilizzo più virtuoso del contratto di appalto, inducendo il committente a selezionare imprenditori affidabili e a controllarne successivamente l’operato…evitando…il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori…”6, sia del tutto incompatibile con effetti legali potenzialmente pregiudizievoli verso le provviste previdenziali dei lavoratori e comunque dell’equilibrio finanziario dell’Ente garante della sicurezza sociale.
A maggior ragione nel contesto attuale, dove, a una tesi restrittiva sulle facoltà di recupero contributivo conseguirebbe, con quasi certezza, un incremento dei già dilaganti fenomeni di dumping sociale, law shopping e delle irregolarità nei processi di outsourcing.
In conclusione, sia dal punto di vista giuridico che in ottica di tutela generale del mercato e dei suoi attori, anche in considerazione della ormai pacifica estensione7 del meccanismo della responsabilità solidale di cui all’art. 29, non può che accogliersi con favore una esegesi normativa, come quella prospetta dai giudici supremi, improntata a garantire il “sistema” governato dall’INPS.
Federico Avanzi
Consulente del lavoro
([1]) Ministero del Lavoro Circolare n. 5 del 11/02/2011
([2]) Cassazione Sez. Lavoro n. 3382/2009
([3]) Cassazione Sez. Lavoro n. 23845/2017
([4]) Art. 1 D.L. 338 del 1989
([5]) Cassazione Sez. Lavoro n. 15120/2019
([6]) Cassazione Sez. Lavoro n. 444/2019
([7]) Corte Costituzionale n. 254/2017