Fiducia, responsabilità, obiettivi. La chance del lavoro a distanza*

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui

Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

Bollettino ADAPT 7 ottobre 2024 n. 35
 
Se dovessimo individuare quale tema polarizza di più il dibattito sul lavoro, in Italia ma non solo, quello sul lavoro da remoto sarebbe di certo al primo posto. Questo perché non è solo al centro della discussione pubblica, sui giornali e nelle televisioni, ma perché occupa i dialoghi quotidiani tra colleghi e amici, tanto è pervasivo. Infatti non c’è solo in gioco una questione legata all’organizzazione del lavoro, ma più profondamente il nostro modo di vivere il lavoro, i tempi di vita e di cura, gli spostamenti da e per il lavoro, le relazioni coi colleghi, e quindi larga parte della nostra esistenza. E proprio per questo il dibattito si radicalizza rapidamente, celando due visioni completamente differenti di lavoro e di rapporto tra la persona e il lavoro. Una polarizzazione che racchiude in sé, peraltro, forti differenze generazionali e che sembra segnare uno spartiacque sul valore che diamo al lavoro nella nostra vita.
 
L’ultimo capitolo della saga del lavoro da remoto è l’annuncio di Amazon di cambiare le sue policy a partire da gennaio con un ritorno a cinque giorni a settimana in ufficio. Come sempre la comunicazione è stata immediatamente semplificata, lasciando sullo sfondo l’ampia possibilità di eccezioni che l’annuncio dell’azienda conteneva e che in qualche modo ci suggerisce una pista di analisi. Infatti una delle più grandi criticità in materia, soprattutto in Italia, è l’essere ancora tutt’oggi largamente rimasti alla forma di lavoro da casa introdotta in modo forzoso – e spesso improvvisato – durante la pandemia. E quindi come un diritto individuale che, in quel momento storico, era legato ad un tema di salute e sicurezza del lavoratore e, oggi, ad un generico diritto di autodeterminazione dei tempi e degli orari di lavoro. Non si è quindi, almeno in molte aziende, passati dall’emergenza all’evoluzione dello strumento, come un vero e proprio nuovo modo di lavorare, ma si è rimasti nel limbo di un diritto acquisito, peraltro considerato benefit irrinunciabile per i lavoratori ma anche per le imprese che si trovano oggi ad affrontare una grave crisi dell’offerta di lavoro.
 
Così, ad esempio, si è rimasti ad un modello in cui la variabile fondamentale è quella dello spazio, con poca o nulla considerazione per il tempo e lo stesso risultato del lavoro che è il vero elemento dove possono giocarsi l’autonomia e la responsabilità dei lavoratori. Con le conseguenze che, da un lato, molte organizzazioni considerano chi opera da remoto quasi un nullafacente nelle giornate in cui non è presente in ufficio e, dall’altro, molti che si sono ritrovati a vivere esperienze di iper-connessione con non poche conseguenze per la salute mentale. Ma anche la conciliazione, spesso giustamente citata come uno degli obiettivi del lavoro a distanza, è difficilmente attuabile se anche la dimensione temporale non viene in qualche modo scardinata e, comunque, non si immagina il lavoro da remoto una soluzione ideale per la sola popolazione femminile a cui contestualmente confermare l’onere, esclusivo o quasi, della cura della casa e dei figli.
 
L’urgenza oggi è riflettere su come vogliamo ripensare le nostre città, le aree interne, le abitazioni e gli stessi i luoghi di relazione e di lavoro, e anche come vogliamo (se vogliamo) far sì che laddove possibile le persone possano ampliare i loro margini di autonomia nel lavorare. Oggi siamo ancora molto distanti dal pensare a un lavoro dove gli obiettivi e i risultati sono più importanti del controllo sull’ora lavorata, perché spesso non si è in grado di dare questi obiettivi, verificarne l’evoluzione in itinere, valutarne il raggiungimento al termine. Si tratta innanzitutto di un rapporto di fiducia, e di una fiducia che si costruisce nel tempo e nella relazione. All’interno di questo rapporto c’è lo spazio per la risposta alle esigenze individuali legate, ad esempio, a carichi di cura e carichi familiari, così come a carichi eccessivi legati agli spostamenti. L’onere è soprattutto di quel livello intermedio di responsabili all’interno delle imprese che, rispetto a una popolazione sempre più anziana, fragile e mobile nelle scelte occupazionali, devono attuare nuove strategie di coinvolgimento e trattenimento dei lavoratori non fondate unicamente sul controllo ma sulla corresponsabilità e anche sulla definizione condivisa degli obiettivi.
 
È molto più rivoluzionario questo che lavorare da casa con le stesse regole e le stesse restrizioni dell’ufficio. Alla lunga un approccio del genere non potrà che tradursi in un turnover sempre più costante ed elevato, data la concorrenza crescente. Al contrario la relazione, basata sulla fiducia e sulla responsabilità condivisa, può contribuire alla costruzione di legami che hanno un vantaggio sia per il lavoratore, che si sente parte di un processo più ampio rispetto al suo singolo compito, sia per l’impresa che può beneficiare proprio di questa più ampia partecipazione.
 

Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è X-square-white-2-2.png@francescoseghezz
 

Michele Tiraboschi
Professore Ordinario di diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia
Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è X-square-white-2-2.png@MicheTiraboschi
 

*pubblicato anche su Avvenire, 6 ottobre 2024

Fiducia, responsabilità, obiettivi. La chance del lavoro a distanza*